Un nostro articolo per Artribune
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Quante volte nel vostro percorso avete incrociato (o costituito) associazioni che operavano di fatto come società di servizi, rivolgendosi al mercato e contando su una parte di contributi pubblici o assimilati tali?
Nello stesso cammino vi sarete imbattuti in un dedalo di scelte (spesso difficili e soprattutto prive di strumenti di preventiva analisi) relativamente agli aspetti fiscali, economici, finanziari, del lavoro ecc. che compromettono la qualità progettuale ed espongono l’impresa (perché di questo si tratta) culturale a un rischio di perenne precariato per sé e per i suoi operatori.
E non si tratta di attribuire colpe a qualcuno, quando in verità è il sistema che non funziona. La forma giuridica dell’associazione rappresenta, da sempre, in ambito culturale, la modalità più semplice e utilizzata per avviare un’attività: facile da costituire (senza l’obbligo di una scrittura autenticata o di un atto notarile), fiscalmente agevolata (nella misura in cui i ricavi istituzionali – non tassati – rappresentano la parte principale delle entrate), medium di comunicazione e attrazione verso i contributi pubblici e delle fondazioni bancarie.
Non è tutto oro quello che luccica, però.
L’articolo completo qui: Cultura e diritto. Il caso delle associazioni | Artribune
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