Appunti per una agenda

di Ugo Bacchella

Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°3, Gennaio 2019

Fondazione Fitzcarraldo è una Fondazione di partecipazione costituita nel 1999, e lo spunto venne da un convegno a Roma in cui era stata evidenziata la mancanza e l’utilità di una sperimentazione di questa nuova forma giuridica nell’ambito delle attività di ricerca, formazione e progettazione culturale. In quegli anni nacquero le prime fondazioni di partecipazione, un piccolo rivolo diventato negli anni un fiume; secondo alcuni ne è stato costituito un numero eccessivo, senza adeguati requisiti patrimoniali, come nel caso di molte fondazioni attivate su iniziativa degli enti pubblici territoriali per la gestione dei beni e delle attività culturali di responsabilità comunale.
L’esperienza delle FdP nasce dalla volontà di valorizzare le forme di contribuzione e di partecipazione di soggetti diversi alla gestione di attività sociali e culturali e in questo senso rappresenta la sintesi in qualche modo dei caratteri distintivi delle fondazioni e delle associazioni.
Il mio intervento di oggi intende contribuire alla formazione di una agenda di priorità di intervento, sulla base dell’esperienza di una fondazione operativa indipendente, attiva in Italia e in Europa in attività di ricerca, consulenza, formazione, progettazione in management e politiche culturali che si avvale delle competenze di 25 professionisti, tra dipendenti e collaboratori. La fondazione non gode di nessun tipo di contributo istituzionale pubblico o privato e la nostra sostenibilità si fonda su servizi e progetti, talora in forma di convenzioni pluriennali, per garantire la necessaria continuità.
Una parte significativa del nostro lavoro è l’accompagnamento alle imprese e alle organizzazioni culturali e in particolare a quelle vincitrici dei bandi di fondazioni bancarie e non bancarie e da altri soggetti, affinché siano in grado di affrontare le sfide dei mercati in modo più appropriato.
La locandina di questo incontro segnala le articolate sfaccettature del mondo della cultura, un bell’eufemismo perché il mondo culturale comprende settori e ambiti con differenze gigantesche tra di loro per oggetto dell’attività, per modalità di produzione, di gestione e di distribuzione, per forme di finanziamento e mercati di riferimento. Questi settori, compongono un quadro frammentato, non solo ma particolarmente in Italia, e presentano un modesto tasso di interazione e collaborazione tra le filiere.
Non a caso questi caratteri distintivi dei settori culturali e creativi sono stati evidenziati nello European Manifesto on Supporting Innovation for Culture and Creative Sectors, che abbiamo redatto nei mesi scorsi con una quindicina di reti e altri soggetti europei rappresentativi di settori e filiere culturali e presentato alla Buchmesse di Francoforte. Una delle maggiori barriere all’innovazione segnalate da tutti i partner di questa iniziativa (e questo a dire che non è un problema italiano) è l’attitudine ad operare all’interno di silos cioè con scarsa capacità dei diversi comparti o subsettori di comunicare, interagire e men che meno convergere a fronte di un mondo segnato dalla logica delle piattaforme convergenti.
Una ulteriore caratteristica fondante di questi settori è la predominante presenza pubblica e la conseguente dipendenza in termini finanziari e normativi. La politica nazionale ha sovente raccontato che invece Oltralpe è un’altra storia, confondendo forme diverse quali la sponsorizzazione, il mecenatismo e la promozione culturale di impresa, e talora proponendo una lettura fuorviante dei dati e delle esperienze. L’esperienza pluridecennale di Paesi europei che hanno incentivato l’iniziativa privata nelle diverse modalità indica che il cambio di paradigma è lungi dall’essere realizzato, pur a fronte di una forte crescita delle iniziative private.
In Inghilterra, ai tempi dei governi Thatcher, venne costituita l’ABSA, un’associazione di promozione degli interventi delle imprese: un audace ministro asserì che nel giro di tre anni il finanziamento privato avrebbe largamente soppiantato l’intervento pubblico. Bene, l’incidenza degli interventi privati sul bilancio di beni e attività tradizionalmente a finanziamento pubblico è ancora oggi in Inghilterra sotto il 10 per cento.
In Italia convivono un nuovo protagonismo del privato, una strutturale debolezza delle sponsorizzazioni e un incompiuto sviluppo delle donazioni, rivitalizzate dall’artbonus, ma senza dimenticare che 1/3 delle donazioni fatte nell’ambito dell’artbonus sono erogazioni delle fondazioni bancarie che semplicemente utilizzano questa opportunità fiscale. É facile prevedere che l’artbonus non decollerà compiutamente finché significativi benefici fiscali non premino anche chi investe su beni e attività private, un pò sulla falsariga del tax credit cinematografico.
La questione delle risorse riveste in Italia una centralità assoluta, dal momento che è stata operata negli ultimi anni una contrazione drammatica della spesa pubblica, a livello centrale e periferico, talché l’Italia è agli ultimi posti in Europa per incidenza percentuale della spesa pubblica per la cultura sulla spesa pubblica totale. Ma anche le altre fonti di finanziamento, con poche eccezioni, non segnano trend positivi; basti ricordare che le fondazioni di origine bancaria, il maggior finanziatore non pubblico, erogavano nel 2008 finanziamenti per € 524 milioni, scesi a 240 nel 2017, quasi la metà.
Alcune fondazioni hanno scelto di investire fortemente e prioritariamente su progetti propri (progetto OGR di Fondazione CRT su cui con un impegno iniziale di € 90 milioni, ma anche a Bologna, Modena, Venezia, Roma) affermando progressivamente anche nuovi obiettivi e nuove modalità di erogazione. Anche molte imprese (si pensi alla Fondazione Prada, all’Hangar Bicocca di Pirelli e molte altre ancora) scelgono di sviluppare una  identità e programmazione propria autonoma, anziché associarsi a istituzioni e organizzazioni culturali.
Le organizzazioni e le istituzioni culturali hanno esercitato resilienza a fronte dell’insieme delle sfide e delle pressioni ma a prezzo di grave indebolimento strutturale, di impoverimento dell’offerta  e senza possibilità di investimenti sul futuro, che le rendano in grado di affrontare efficacemente uno scenario sempre più competitivo.
Le azioni dei governi in ambito culturale tendono quasi ovunque, e in modo pressoché esclusivo in Italia, alla conservazione del quadro esistente e non sostengono né la sperimentazione né l’innovazione tecnologica, culturale e sociale. Sono infatti sostanzialmente assenti sia il sostegno alla nuova generazione di imprese culturali, sia forme di incentivazione all’innovazione delle istituzioni culturali.
Su questo fronte gli unici interventi significativi sono venuti negli ultimi anni da programmi messi in campo da alcune fondazioni italiane di origine bancaria, mentre il mondo della finanza privata ha dedicato, in particolar modo in Italia, ma anche in Europa, scarsissima attenzione alle imprese culturali, startup comprese, fondamentalmente perché l’innovazione in ambito culturale si sviluppa con motivazioni, obiettivi, tempi e modalità di ricerca e sviluppo del tutto diversi rispetto alle startup tecnologiche e con margini di crescita economica e profittabilità poco attraenti nelle logiche prevalenti di investimento.
Tornando al ruolo delle politiche pubbliche, la peculiarità di questi settori è che comprendono soggetti sottoposti a norme molto diverse, ma improntate complessivamente a forte tasso di conservazione dell’esistente. Questo è un problema enorme in tempi in cui il digitale ha cambiato radicalmente le regole del gioco e interviene costantemente a modificare gli scenari operativi. Il cambiamento del mondo innescato dalla rivoluzione digitale sta anche ulteriormente ampliando l’alto grado di frammentazione, precedentemente segnalato come tratto distintivo storico dell’imprenditoria e delle professioni culturali: uno studio europeo di un paio di anni fa ha evidenziato come il 95 per cento delle imprese organizzazioni culturali abbia meno di 10 addetti.
Il digitale ha spazzato via molte forme di intermediazione, anche grazie alla possibilità di produrre con risorse limitatissime. Per fare un esempio, prima all’avvento del digitale erano necessari investimenti consistenti in uno studio di registrazione musicale. Oggi con 3500 euro si produce in studio una qualità spendibile sui mercati mondiali per cui un gruppo di giovani musicisti locali può accedere al mercato globale conquistando una quota di mercato e accedendo a circuiti di programmazione in Giappone, senza ricorrere a case di produzione discografica, circuiti distributivi e agenzie.
A fronte di queste trasformazioni la competenza e la conoscenza degli operatori culturali sono del tutto inadeguate incidendo sul livello di innovazione del settore culturale che in Italia è modesto sia per quanto riguarda le pratiche e le forme di produzione che gli aspetti organizzativi e gestionali. Per limitarci ad un esempio particolare, il digitale non viene vissuto come un’opportunità con straordinarie potenzialità: la gran parte dei responsabili delle istituzioni museali vede il digitale come un mezzo di fare degli allestimenti più attraenti, utilizzando la realtà virtuale o postazioni interattive,  ma non vede, la possibilità di utilizzare il patrimonio culturale per produrre nuovi contenuti e creare altre forme di economia culturale.
In questo quadro che cosa si potrebbe chiedere alle vostre professioni?
Nel rapido processo di delegittimazione e declino di organismi e strutture di mediazione e di intermediazione la presenza di soggetti, espressione delle professioni, in grado di sedersi ai tavoli istituzionali nazionali, regionali o locali con l’ANCI o altre organizzazioni rappresentative oltreché partecipando a gruppi di lavoro  / tavoli tecnici territoriali o settoriali, portando contributi tecnici puntuali, avrebbe un ampio spazio e un ruolo fondamentale nel suggerire soluzioni concrete e praticabili.
Per concludere con una prospettiva e un  ambito di lavoro concreto segnalo la necessità di accompagnare i processi di sviluppo e consolidamento di uno dei fenomeni culturali più attivi e interessanti in atto. Si tratta della nuova generazione di centri culturali indipendenti diffusi su tutto il territorio nazionale, nelle aree metropolitane come in piccoli e medi comuni e in aree rurali e marginali.
Sono attivi centri culturali indipendenti di importanza davvero straordinaria per la capacità di generare offerte di servizi e prodotti originali ben al di là dell’ambito della produzione culturale in senso stretto. Tra i tanti ne cito uno solo emblematico: l’ex Fadda a San Vito dei Normanni (Comune di 15.000 abitanti in provincia di Brindisi), un ex stabilimento enologico nato dal programma regionale Bollenti Spiriti all’epoca delle giunte Vendola, anche grazie al sostegno di una impresa che si è fatta carico e garante della costruzione della sostenibilità. Questo centro ospita attività e servizi culturali, sociali e produttivi eterogenei e in modalità innovative, coinvolgendo una quota assai significativa della popolazione anche dei comuni limitrofi di tutte le fasce d’età, e generando un bilancio di poco meno di un milione di euro che è come dire a Milano alcuni milioni di euro, facendo le proporzioni di bacino di utenza e reddito disponibile.
La proliferazione di questi nuovi attori ha come tratto comune prevalente la convivenza e l’interazione di soggetti eterogenei, perché sotto lo stesso tetto si trova chi fornisce i servizi alla cittadinanza, l’impresa a vocazione tecnologica che fa le app per la fruizione museale, la cooperativa di produzione legata alla filiera agroalimentare e simili.
Questa tipologia di soggetti ha forti necessità di sostegno nella identificazione e costruzione di strumenti di gestione e di governance, che facilitano il pieno dispiegamento delle loro potenzialità.
Le vostre professioni hanno un ruolo fondamentale in questa funzione di accompagnamento operativo delle singole esperienze locali sia a livello formativo che consulenziale, così come a livello regionale e nazionale attraverso un’opera di consulenza finalizzata al rinnovamento delle politiche e dei programmi pubblici e privati  mediante l’individuazione e l’articolazione di strumenti normativi efficaci, costruiti con il contributo di tutte le parti interessate per garantirne l’appropriatezza e soggetti a monitoraggio puntuale per valutarne l’efficacia.
La premessa imprescindibile è che il vostro mondo professionale accetti il valore positivo, fondante dei caratteri specifici di questo settore culturale, il che non vuol dire compiacere la nota capacità autoreferenziale degli operatori culturali di guardarsi l’ombelico ma, invece, aiutarli a concorrere alla modernizzazione del settore con un accompagnamento intelligente, critico e coraggioso.
In questo senso sarebbe auspicabile che gli ordini professionali facessero un’operazione preziosa che l’università e il mondo accademico, con rare eccezioni, non fanno. La nuova generazione di  centri culturali è totalmente assente nel mondo della ricerca accademica che dovrebbe studiare, individuare la natura e le potenzialità di questi nuovi fenomeni sociali culturali economici e consegnare al mondo della politica e agli stakeholder un quadro di riferimento per legiferare, accompagnandolo. Ma siccome far ricerca su questo tipo di soggetti non dà prestigio nè commesse, l’Università se ne disinteressa.
Sarebbe quindi molto importante che si alimentassero processi di conoscenza per capire quali sono le soluzioni più efficaci da un punto di vista giuridico e fiscale, evitando però la standardizzazione a oltranza . Essendo abituato ad esprimermi senza reticenza mi riferisco a obbrobri di statuti di fondazione di partecipazione, redatti da notai che li avevano scaricati da internet. Non funziona così, non può funzionare così. Il modo per rendere più potenti più incisive e più efficaci le organizzazioni e le imprese culturali è di accettare un certo grado di approccio adhocratico che deve avere alla base un orientamento a comprendere come valorizzare quelle esperienze con quelle specifiche caratteristiche, certamente assumendo alcuni modelli di riferimento.
In particolare, ci sono degli aspetti che riguardano i processi di governance di enti che operano su scala territoriale, fondamentali proprio perché coinvolgono soggetti diversi, dove bisogna immaginare forme specifiche e originali di rappresentanza di interessi di partecipazione ai processi decisionali. Non si può pensare che una rete di dieci soggetti che gestisce i servizi culturali e turistici interno a un Parco archeologico in un’area a forte vocazione agroalimentare venga “trattata” come l’orchestra Verdi di Milano. Sono soggetti diversi che operano in realtà diverse e quindi bisognerebbe che le professioni producessero un quadro e modelli di riferimento, che poi i singoli professionisti possano articolare e specificare invece di limitarsi a scegliere tra cinque modelli standard.
Il grande potenziale a tutto campo della cultura italiana non è solo, e forse neanche prevalentemente, nella Scala e nel Colosseo. È in quelle centinaia di esperienze territoriali, in atto e potenziali, in cui si possono saldare i servizi alla cittadinanza, i servizi turistici, lo sviluppo di tecnologie al servizio di tutti questi elementi, la coesione sociale, il miglioramento della qualità della vita degli anziani e delle fasce disagiate. Tutti questi campi di intervento hanno bisogno di una sensibilità istituzionale e di normative appropriate e hanno. altrettanto bisogno, a livello locale, di professionisti che li aiutino in quegli ambiti disciplinari e gestionali  in cui le organizzazioni e le imprese culturali sono poco attrezzate.

Ugo Bacchella è presidente della Fondazione Fitzcarraldo.