Brevi osservazioni sulla tutela penale dei reperti archeologici

di Paolo Giorgio Ferri

Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°7, Gennaio 2020

La criminalità nel settore dei reperti archeologici era ed è assai articolata: dai tombaroli o ladri, ai mediatori regionali ed internazionali, ai trasportatori, ai restauratori, coinvolgendo sovente esperti, galleristi, personale delle case d’asta, curatori museali e doganieri. Tutti soggetti che, per i grandi profitti che realizzano, si associano tra di loro in rapporti di difficile investigazione e contrasto1. Senza una intensa e continua collaborazione internazionale, il traffico dei reperti archeologici è destinato a perpetuarsi. Esso è infatti per tendenza transnazionale, perché solo in territorio estero molte delle illecite acquisizioni possono essere legittimate. Mentre in passato avevano ragione d’essere suddivisioni o classificazioni del tipo «paesi di origine, paesi di transito e paesi mercato», oggigiorno, ogni nazione è spesso e ad un tempo paese di importazione di beni culturali altrui ed esportatore delle proprie vestigia. Va anche considerato che il danno non va calcolato con riferimento esclusivo alla nazione che subisce l’emorragia dei propri beni, bensì con riguardo all’intera umanità che perde pagine e pagine della propria storia. Vi è un altro aspetto che va debitamente ponderato. La delinquenza di settore è molto dinamica, avendo a disposizione mezzi economici niente affatto trascurabili. È pertanto in grado di orientare molte delle proprie scelte operative e selezionare quei territori che offrono sia maggiori guadagni, sia minori rischi. In altra prospettiva, ovunque la tutela -anche penale- risulti di minore intensità, proprio là la criminalità viene ad operare, specie per una tipologia di traffico che con sempre maggiore frequenza si affida al web2. A tutto questo consegue che in molti casi risultano inefficaci misure anche severe qualora queste non vengano concordate e condivise, se non dalla totalità delle nazioni, almeno da una parte significativa di esse. In particolare, per nazioni tra di loro confinanti e che comunque abbiano una comune area culturale, sorge la necessità di armonizzare le rispettive legislazioni ed implementarle in maniera efficace e coerente. Esse debbono pure intensificare la cooperazione, soprattutto attraverso un continuo e costante scambio di informazioni e dati. Va anche sottolineato come le più recenti norme internazionali siano state volute in considerazione del crescente coinvolgimento di associazioni criminali - di recente anche di matrice terrorista - nel traffico di reperti archeologici o beni culturali in genere. Tali beni, pur costituendo una irripetibile testimonianza dell’identità dei popoli, vengono sovente illecitamente acquisiti, esportati e commercializzati attraverso mercati anche virtuali grazie a moderne e sofisticate tecnologie. Al riguardo basti ricordare come la comunità internazionale si sia preoccupata con maggiore insistenza di emanare norme3 che propongono soluzioni con riferimento: (i) alle banche dati dedicate ai beni culturali; (ii) al ruolo del settore privato e più in generale della società civile chiamati entrambi a comportamenti virtuosi verso obiettivi di tutela, ad iniziare dall’assunzione di obblighi di diligenza e denunzia a fronte di beni di sospetta provenienza; (iii) all’inversione dell’onere della prova che, a certe condizioni, può gravare sull’acquirente chiamato a dare giustificazioni del suo acquisto; (iv) alla previsione -come reati gravi- di comuni e condivise fattispecie penali che dovranno sanzionare non solo il traffico illecito ma anche altre situazioni che espongono a danno o pericolo i beni culturali; (v) all’estradizione ed all’assistenza giudiziaria in genere; (vi) alla cooperazione tra Forze di Polizia e di Procure specializzate, soggetti tutti che potranno avvalersi in molti casi di speciali tecniche investigative; (vii) alla giurisdizione per i fatti commessi all’estero; (viii) al sequestro, confisca e restituzione dei beni oggetto dei traffici illeciti. Per quanto attiene alla legislazione italiana, non vanno sottovalutate talune considerazioni di politica criminale. In particolare, è più che mai urgente rivedere la disciplina dei reati che hanno ad oggetto i reperti archeologici o i beni culturali in genere4 . L’attuale legislazione italiana appare, infatti, essere farraginosa, contraddittoria e non esente da critiche. Occorre, invero, una vera e radicale svolta, iniziando dalla riconsiderazione di quei valori che vengono violati dalle condotte che attentano ai beni culturali, i quali, com’è noto, sono espressamente tutelati dall’articolo 9 della nostra Carta Costituzionale5 . L’Italia, per la molteplicità e diffusione dei suoi tesori, può essere considerata un museo a cielo aperto. Tanta ricchezza ha attirato da sempre l’attenzione della criminalità, favorita sovente da collezionisti e da alcune istituzioni museali di altri Paesi, senza scrupoli e compiacenti ovvero, addirittura, complici rispetto all’illecito traffico di beni culturali provenienti dal nostro Paese. Sicuramente il fenomeno più devastante e invasivo è quello in danno delle aree archeologiche, ove operano vere e proprie organizzazioni criminali. Queste nel tempo sono state in grado di immettere sul mercato beni culturali in numero elevatissimo, anche di «outstanding value». Tali attività hanno certamente contribuito a decontestualizzare moltissimi beni archeologici, persi definitivamente alla ricerca scientifica, con un danno culturale irreparabile, proprio perché, com’è noto, trattasi di beni o fonti non-rinnovabili. Ma contro tale fenomeno si può reagire, anche mutando alcuni atteggiamenti e giudizi ad oggi ancora radicati in molti operatori del settore6 . Occorre, quindi, una svolta decisa ad iniziare da una compiuta riforma del diritto penale in questa materia, oramai improcrastinabile. È infatti diventato, se possibile, più acuto l’allarme relativo alle minacce al nostro patrimonio. Diviene allora quanto mai necessario consolidare i positivi risultati della «diplomazia culturale» italiana nel recuperare capolavori archeologici trafugati dal nostro Paese e nello sperimentare criteri scientifici e metodologie di cooperazione per prevenire i traffici e snidare le complicità nel commercio illecito di reperti archeologici. Il legislatore sta attualmente esaminando un progetto di riforma, in buona parte ripreso dalla scorsa legislatura. Esso contiene talune incongruenze a cui si può ovviare. Tuttavia, è necessario che esso sia portato a compimento. Le sue disposizioni normative, diversamente dalla legislazione vigente, consentono di estendere la giurisdizione a tutti i casi in cui venga illecitamente trattato un bene culturale di provenienza italiana. Vengono altresì potenziate le capacità investigative ed inasprite le pene. Quello che forse è mancante è una descrizione normativa che renda permanenti tali delitti, proprio come avviene per molte altre fattispecie criminose. D’altra parte, quello commesso in pregiudizio dei reperti archeologici è sovente un reato assai grave. Questo, almeno negli effetti, comporta danni che sono permanenti ed irreversibili. Vi è, quindi, più di una ragione per formularlo alla stregua di un crimine che perdura nel tempo. Si potrebbe, almeno, far decorrere la prescrizione dal momento in cui la vittima è venuta a conoscenza del delitto commesso in suo danno. Solo così facendo sarà possibile contrastare quelle condotte che, in quanto clandestine o comunque occulte, non sono conoscibili se non dopo svariato tempo. Di tale decorso si avvantaggia la delinquenza di settore che spesso «congela» la commercializzazione di un bene di provenienza delittuosa, attendendo per l’appunto che siano maturati i termini di prescrizione. Ciò premesso, appare opportuno elencare quei reati che vengono più frequentemente contestati al fine di contrastare quell’odioso fenomeno criminale che nega a tutti, come umanità, la condivisione della cultura, della storia e della bellezza. Nella materia specifica dei reperti archeologici vanno indicati per frequenza e peculiarità le seguenti fattispecie: (i) Come di già accennato, l’associazione per delinquere è reato molto frequente in tema di traffico illecito di reperti archeologici. Esso è assai utile per combattere la criminalità di settore. Trattasi, infatti, di crimine che può dare soluzione a problemi di giurisdizione e che serve ad ampliare lo spettro delle indagini, consentendo una più efficace assistenza giudiziaria, almeno in tutti quei paesi che hanno ratificato la United Nations Convention against Transnational Organized Crime del 2000, nota come Convenzione di Palermo7 . Secondo tale Trattato sono sufficienti ragioni di sospetto e non è necessario che il delitto di associazione per delinquere sia formalmente contestato, purché il reato commesso «involves an organized criminal group». Va pure sottolineato come le strutture associative siano in genere di tipo piramidale, vale a dire organizzate in modo gerarchico, quando operano nel paese di origine. Mentre i criminali si avvalgono di collegamenti di tipo funzionale, allorché agiscono in territorio estero. I soggetti che compongono tali strutture associative raramente sono in contatto con altri criminali per traffici di altro genere. Ma in territori a forte controllo mafioso o ove siano in atto occupazioni di tipo bellico diviene possibile una interazione tra traffici criminali di diverso genere e strutture mafiose possono intervenire per gestire direttamente il traffico illecito di beni culturali. Va infine detto che le società hanno un ruolo importante nel traffico illecito di reperti archeologici. Queste entità sono difficili da investigare ed offrono alla delinquenza di settore schermi e molteplici opportunità per riciclare i beni; (ii) Il riciclaggio è un altro reato che in materia di reperti archeologici viene compiuto con frequenza. In genere, esso consiste in operazioni volte ad occultare l’illecita provenienza di un bene. Per i reperti archeologici appare sovente necessario nasconderne l’origine delittuosa, quando la loro acquisizione derivi da furto, da danneggiamento di siti, da scavo clandestino, da esportazione illegale o da altre illecite condotte. Va detto che il riciclaggio non è un fenomeno solo monetario, che pure avviene in materia di beni culturali, quando il danaro proveniente da altre attività criminali viene utilizzato per acquistare un oggetto artistico. Molte volte è però lo stesso reperto archeologico che può essere oggetto di riciclaggio. Ciò si verifica quando esso viene sottoposto alle operazioni che a titolo di esempio qui appreso si enumerano: (a) possono esservi esportazioni in territori esteri che hanno come unico fine quello di riciclare un bene. Tali destinazioni vengono adottate perché il bene nel paese di origine non può essere legittimato o di esso non ne è consentita l’esportazione8. Altre volte l’esportazione serve a rendere più difficile l’accertamento in merito all’autenticità del bene9. In altre, ancora, l’esportazione avviene verso un Paese che non ha aderito alle convenzioni di settore10; (b) altro sistema di riciclaggio viene ad essere realizzato con le vendite c.d. rateali dell’oggetto. Il bene viene preventivamente ridotto in frammenti ovvero, se rinvenuto in tali condizioni, non viene intenzionalmente restaurato. Tali condotte agevolano da un lato l’esportazione del bene che in frammenti può essere occultato con grande facilità e comunque non attira l’attenzione del personale preposto ai controlli doganali. Dall’altro, le condotte in parola permettono una vendita a prezzi crescenti, proprio perché gli acquirenti sono desiderosi11 di ricomporre l’intero e non possono correre il rischio di vedere compromettere la validità di quanto acquistato, dovesse il venditore consegnare i successivi frammenti alle autorità investigative; (c) i criminali ricorrono però anche ad altre operazioni di riciclaggio, come quando occultano il valore artistico del reperto con ritocchi od altro, così agevolando la sua esportazione o nascondendone la provenienza da altro delitto12; (d) altro sistema adottato è quello della vendita e del riacquisto del bene culturale tramite case d’asta o altre società. Con tali operazioni il venditore (che è allo stesso tempo acquirente, direttamente o per mezzo di prestanome) potrà fissare i prezzi di beni che sovente sono di incerta valutazione economica. Potrà inoltre contare sulla tutela che è riconosciuta agli acquirenti di buona fede quale è lui, almeno apparentemente, per aver acquistato il bene in una pubblica asta; (e) i criminali arrivano addirittura a creare documentazione di comodo con la quale attestano falsamente che il bene culturale appartiene ad una collezione storica. In tal modo essi cercano di dimostrare che l’acquisizione del reperto archeologico precede nel tempo quella legislazione nazionale che venga ad imporre limiti al suo possesso o alla sua circolazione; (f) i delinquenti prestano i reperti archeologici di illecita provenienza ai musei. In tal modo conseguono una rivalutazione economica del bene (che risulterà addirittura ospitato in una mostra museale). Possono, inoltre, sfruttare quei termini brevi che fanno decadere il vero proprietario, quello privato del possesso, da ogni azione civile, perché al bene è stata data idonea e specifica pubblicità13; (g) il reperto archeologico può essere riciclato sfruttando il sistema bancario. A fronte di oggetti di provenienza illecita si ottengono mutui od altre garanzie. Il bene finisce così nei caveau delle banche e viene occultato per periodi di tempo anche considerevoli. Si impedisce, tra l’altro, al legittimo proprietario di poter recuperare il bene, che nel frattempo, perde pure la sua caratteristica principale, vale a dire quella di essere veicolo di cultura; (h) la delinquenza arriva pure a sfruttare le differenze normative che esistono tra paesi di civil law rispetto a quelli di common law. Ad esempio, se un bene rubato in Francia viene venduto in Gran Bretagna, il giudice inglese chiamato a decidere il caso riconoscerà al legittimo proprietario il diritto a recuperare il bene. In ossequio, però, alle norme francesi sulla tutela dell’acquirente di buona fede, onererà il derubato di un indennizzo che sovente scoraggia ogni rivendicazione14; (i) la delinquenza di settore arriva ad interpellare -pretestuosamente- le banche dati esistenti, tutte le volte che sa che il bene non è o non può per le sue caratteristiche essere iscritto in tali banche15. Il vantaggio per i criminali è quello di poter vantare una sorta di buona fede qualora inquisiti ovvero chiamati, in sede civile, a rispondere ad azioni di rivendicazione. Essi possono, inoltre, invogliare il successivo acquirente mostrandogli l’interrogazione alla banca dati16 a dimostrazione della legittimità della transazione in corso. A questa casistica17 va aggiunto come il delitto di riciclaggio, al pari dell’associazione per delinquere, sia un reato sovente compiuto in territorio estero. Appare chiara, quindi, la sfida che attende le autorità investigative18 e quale cooperazione internazionale sia necessaria per fronteggiare tante sofisticate operazioni, per altro tenute in territori distanti e considerate in modo diverso dagli ordinamenti chiamati a reprimerle; (iii) Di rilevante valore rispetto alla tutela dei reperti archeologici è l’articolo 174 del codice dei beni culturali che punisce la uscita o esportazione illecita di tali beni. È questo un reato commesso assai di frequente proprio in relazione ai reperti archeologici che, come accennato, possono spesso essere legittimati solo con un trasferimento in territorio estero. L’illecita esportazione è un reato che dovrebbe essere punito severamente ovunque per i danni che cagiona al cultural heritage. Per tale delitto è relativamente facile fornire la prova: se l’oggetto è stato esportato regolarmente avrà la relativa licenza e sarà comunque registrato in uscita nella documentazione del paese di origine. In aggiunta, la punizione di tale reato consente di contenere altri fenomeni criminali, come gli scavi clandestini di difficile accertamento. Tant’è che le anzi citate International Guidelines e le Operational Guidelines considerano la fattispecie in parola e chiedono che venga qualificata come serious crime. Tali strumenti normativi prevedono anche il reato di illecita importazione, innalzando così quello che deve essere il livello di assistenza internazionale, più efficace se si realizza attraverso una cooperazione di tipo preventivo.
Va dunque abbandonata quella distinzione tra patrimony laws e public laws (tra le quali ultime vengono ricomprese le export regulations) che tanto era -e talora è- in voga nei paesi di common law. Distinzione che in passato, ma ancora nel presente, era ed è considerata critica. In breve, solo i reati previsti da patrimony laws (ad esempio il furto, la ricettazione ecc) venivano e vengono considerati degni di assistenza da taluni degli ordinamenti richiesti. Sempre con riguardo a questo reato, va segnalato come i paesi non possano combattere da soli il traffico illecito di beni culturali. Se tale fenomeno criminale non viene affrontato con pari severità ed ovunque, la delinquenza sceglierà il paese più permeabile rispetto ai suoi traffici. Di lì poi estenderà la sua attività pure ad aree ove i controlli sono rigorosi. È tempo quindi di ripensare l’assistenza giudiziaria che dovrebbe essere sempre più fondata sulla mutual recognition delle decisioni giudiziarie. Al riguardo, va segnalato come il principio di reciprocità debba essere ritenuto sussistente anche quando il paese richiesto di assistenza non conosca nel suo ordinamento la fattispecie in parola, ma comunque sanzioni penalmente il reato di contrabbando. In tal caso si deve applicare il così detto transformative interpretation method, secondo il quale non è necessario che tutti gli elementi delle fattispecie a confronto corrispondano. È sufficiente, infatti, che siano compatibili quelli di maggior rilievo. Considerando la legislazione italiana, appare di assoluto rilievo, per i fini soprattutto recuperatori, la disposizione che impone al giudice di disporre la confisca delle cose, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato19. La confisca ha poi luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando. Trattasi di confisca obbligatoria20, su presupposti diversi da quelli di cui alle disposizioni del codice penale e in deroga allo stesso. Inoltre, tale confisca viene esclusa solo nei confronti del terzo possessore che provi di essere in buona fede21; (iv) Va, ovviamente, ricordato lo specifico reato punito dall’articolo 176 del codice dei beni culturali che contempla il c.d. furto archeologico. Tale articolo, tuttavia, sanziona il delitto in parola con pene davvero irrisorie, tali da non consentire misure investigative e repressive di rilievo. Va però detto che per i reperti archeologici non acquisiti a seguito di rinvenimento22 saranno applicabili, in caso di furto, le norme previste dal codice penale, la quali hanno sicuramente maggiore deterrenza. Il legislatore è chiamato, quindi, con urgenza, ad inasprire le pene23, proprio per contenere i danni cagionati ai contesti di appartenenza24. Altrimenti, si finisce per essere più severi nel reprimere il furto di un’autoradio, piuttosto che nel sanzionare la sottrazione di reperti archeologici, visto che, in quest’ultimo caso, la pena non può in alcun caso superare i tre anni di reclusione, a cui si accompagna una multa davvero irrisoria. Il tutto a fronte ad un traffico di beni che porta guadagni ingenti alla delinquenza di settore. Al termine delle indicazioni che precedono, sia consentito evidenziare come la nuova politica italiana di prestiti anche di lungo termine verso istituzioni museali estere, accompagnata da azioni di recupero in sede civile e penale, abbia di mira proprio il contrasto alla criminalità di settore. Attraverso una concertata pratica di scambi si viene, infatti, attuando una lungimirante attività di prevenzione e si bloccano le disinvolte operazioni dei c.d. grandi acquirenti25. Allo stesso tempo, si riducono la domanda e di conseguenza l’offerta e i correlati vantaggi economici del traffico, ed in ultima analisi i profitti dei criminali. In tal modo, si può addirittura contribuire a disegnare un diverso modo di concepire i musei e i loro legittimi interessi scientifici. Con il risultato che non vi sarà in futuro più alcuna convenienza nel ripetere quelle condotte illecite da parte di curatori di importanti musei i quali giammai dovrebbero assegnare un compito educativo a beni culturali che siano frutto di furto, danneggiamento, saccheggio di aree archeologiche e dei relativi contesti, di attività coloniali e comunque predatorie. Preme poi sottolineare come - seppure con estrema difficoltà e con risultati parziali - ai processi di armonizzazione si siano affiancati quelli di assimilazione tra i differenti ordinamenti giuridici, grazie a quelle valutazioni delle norme imperative dei Paesi di origine rispetto al bene oggetto di controversia26. Non è perciò del tutto avventato prevedere in materia il risultato finale dell’unificazione che è poi creazione di una uniforme legislazione. Vale a dire, la c.d. lex culturalis, da progettare ed emanare anzitutto in ambito nazionale, adeguandola a quella -seppure in fieri- di formazione internazionale. Va, infine, rilevato come non vi debbano essere forme di tutela diversificate - sia a livello internazionale che nazionale - dei beni culturali. Essi, se decontestualizzati, vengono sempre a subire irrimediabili danni. Tali effetti dannosi si verificano tanto in tempo di guerra che in tempo di pace. Al riguardo, è noto che la normativa internazionale vieta in tempo di guerra ad uno Stato occupante di rimuovere beni culturali dalla zona bellica. Al pari, ogni Stato, in tempo di pace, non dovrebbe tollerare al proprio interno il commercio illecito di beni culturali. Questi beni hanno uno loro status e non possono essere trattati come merci comuni. Essi soddisfano un interesse collettivo. La loro tutela e salvaguardia nel contesto in cui sono stati creati è un imperativo a cui non si può derogare. Né il terrorismo né la belligeranza sono fattori che possono determinare una protezione differenziata.

Paolo Giorgio Ferri è procuratore a Roma nel gruppo che si occupa di reati contro il patrimonio culturale italiano ed esperto internazionale in problematiche giuridiche relative ai beni culturali per il MIBACT. Ora legal adviser per il Direttore Generale dell’ICCROM e Presidente della SIPBC (Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali).

Note

(1) Le indagini in questo settore hanno spesso di mira organizzazioni criminali con un forte senso di appartenenza e profondamente radicate nel tessuto di una determinata comunità. L’omertà è molto forte e le strutture associative sono composte pure di società off-shore. Allo stesso tempo, le indagini nel settore culturale sono assai diversificate.
Le normali attività di polizia devono tenere conto di aspetti talora conflittuali. L’esigenza di recuperare i reperti archeologici o i beni culturali in genere può, infatti, entrare in contrasto con quelle investigazioni volte a sconfiggere e punire i criminali che non di rado conducono articolate rappresaglie per ottenere l’impunità.
(2) La globalizzazione dei mercati ed Internet rappresentano di certo nuove e difficili frontiere. Un’ adeguata attenzione ai fenomeni criminali di che trattasi -sollecitata di recente dalla legislazione internazionale- appare
necessaria non solo per evitare la de-contestualizzazione di beni culturali, ma anche per contenere quei vantaggi economici che i criminali stimano di guadagnare. Va anche considerato che non appare possibile che le frontiere esistano solo per le agenzie investigative, mentre la criminalità è libera di muoversi senza controlli effettivi e reali.
(3) Si vedano in particolare le “ International Guidelines for crime prevention and criminal justice responses with respect to trafficking in cultural property and other related offences”, adottate il 18 dicembre 2014
dall’Assemblea Generale dell’ONU; e le “Operational Guidelines for the Implementation of the Convention on the Means of Prohibiting and Preventing the Illicit Import, Export and Transfer of Ownership of Cultural
Properties (Paris, 1970)”, adottate tra il 18-20 maggio2015 dal “Meeting of States Parties”.
(4) La tutela penale dei reperti archeologici è attuata soprattutto attraverso l’applicazione delle norme contenute nel codice penale e di procedura penale, nel codice dei beni culturali, nel Regio Decreto 30 marzo 1942, n. 327 che ha approvato il codice della navigazione, nel Testo unico del 23/01/1973 n. 43, contenente disposizioni legislative in materia doganale, nella la legge 23 ottobre 2009, n. 157, che ha ratificato la Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo e nella legge 16 aprile 2009, n. 45, di ratifica ed esecuzione del II Protocollo relativo alla Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. Preme qui sottolineare come nell’attuale quadro normativo la tutela più efficace sia paradossalmente
quella che può essere realizzata attraverso il codice penale, il quale, ovviamente, non distingue -se non in rari casi- tra bene comune e bene a valenza culturale, assoggettando quest’ultimo alla stessa tutela di altri beni, considerati soprattutto in relazione al valore economico. Vengono, quindi, trascurati gli aspetti intangibili ed immateriali propri di ogni bene culturale.
(5) L’esigenza di cambiamento si avverte tanto più perché, proprio a livello internazionale, si assiste ad una difesa sempre più efficace dei patrimoni culturali dei Paesi ricchi di vestigia del passato e quindi anche del nostro; e recentemente si può segnalare una tendenza a dare puntuale attuazione alle convenzioni e raccomandazioni di settore e segnatamente a quelle dell’UNESCO, con restituzioni di reperti da parte di molte istituzioni museali estere che così, non solo onorano la scienza archeologica, ma offrono un sicuro aiuto all’opera di contrasto
avviata anche in sede processuale. Ma a questo punto risulta evidente che una sottovalutazione dei fenomeni criminali in esame all’interno del nostro ordinamento creerebbe sconcerto a livello internazionale, ove si apprestano tutele che noi sovente disattendiamo, sia a livello normativo che giurisprudenziale. Occorre invece una risposta penale proporzionata al danno economico e culturale ed ai profitti conseguiti. Lo strumento penale, per quanto estremo, risulta invero tra i più efficaci ed idonei a fronteggiare in maniera risolutiva il fenomeno dei traffici illeciti di beni culturali, la cui gravità è riassunta dall’espressione (che ne rende il vero
significato) “stealing history”, da usare come vero e proprio marchio.
(6) Nessuna attività di inventario e/o banca dati potrà mai catalogare materiale che provenga da uno scavo clandestino, proprio perché, in quanto tale, sfugge a ogni controllo. Tuttavia, proprio l’omessa catalogazione
dell’oggetto dovrà essere ritenuto un indice di probabile, illecita acquisizione. La globalizzazione dell’informazione e l’interesse oramai mondiale -talora anche diffuso in ambiti non propriamente scientificiconducono a ritenere che ogni acquisizione e/o scoperta di un certo rilievo, se legittima, venga doverosamente pubblicata e ancor prima corredata con gli opportuni studi di contesto e comparativi. In mancanza di tali accertamenti e informazioni, diviene evidente come i reperti archeologici di cui si contesta il lecito possesso siano con buona probabilità di recente e clandestina scoperta. Argomentare contro siffatto modo di dedurre, palesa sicura insensibilità di fronte al problema degli scavi clandestini e non tiene conto delle norme di settore e delle loro finalità. Ma soprattutto richiede una “probatio diabolica” ingiustificata e molto più severa rispetto a mille altre situazioni ove le cosiddette “fanciful probabilities” vengono invece puntualmente disattese. Si dovrà quindi affermare che ogni qualvolta il mercato internazionale e/o nazionale venga trattando reperti archeologici di ignota acquisizione e provenienza (vale a dire di ignoto luogo di origine, contesto e data di acquisizione, il c.d. “clean bill of health”): le transazioni riguardanti l’oggetto sono e debbono essere ritenute illegittime non solo “de jure condendo”, ma anche sulla base del diritto positivo vigente.
(7) La Convenzione in parola risulta ratificata da 190 Stati, sicché quasi tutte le aree regionali del mondo risultano oramai collegate tra di loro quanto ad assistenza giudiziaria. La cooperazione può essere richiesta e concessa da e in favore di quasi tutti gli ordinamenti giuridici, anche di quelli che in passato, invece, non erano vincolati da trattati per la reciproca assistenza. I mezzi di investigazione sono poi assolutamente rilevanti grazie alla Convenzione in parola. Si considerino ad esempio i “joint investigation teams”, le intercettazioni telefoniche ed in genere la sorveglianza elettronica a distanza, le consegne simulate, gli agenti provocatori ecc., richiedibili sulla base del Trattato in parola.
(8) Come è noto i reperti archeologici sono in genere di proprietà dello Stato ove sono stati rinvenuti, il quale raramente concederà la licenza per esportarli, specie quando non è chiaro a chi spetti la “ownership” sul bene.
(9) Si sfrutta la scarsa competenza tecnica che possono avere alcuni uffici esportazione per ottenere un certificato che autorizzi la spedizione all’estero di un reperto archeologico contraffatto, il quale viene così veicolato sul mercato come genuino ed in lecita circolazione, per avere ottenuto tutte le licenze necessarie.
(10) Tali tipi di triangolazioni avvenivano fino ad un recente passato, ad esempio, tra l’Italia e la Svizzera. Tale ultimo paese veniva privilegiato dalla delinquenza di settore anche per via del suo segreto bancario, fino a
qualche anno or sono quasi impenetrabile. La Svizzera è, poi, com’è noto, paese confinante con l’Italia. Sino a tempi recenti, inoltre, tale nazione non aveva ratificato molte delle Convenzioni UNESCO e segnatamente quella del 1970. Le successive esportazioni dal suo territorio non venivano quindi sottoposte a quei controlli che altrimenti sarebbero stati imposti ai beni con provenienze da nazioni vincolate da questi trattati.
(11) Anche gli acquirenti traggono vantaggio da tale forma di vendita. Tra l’altro possono presentarsi al mondo accademico come persone che hanno contribuito alla salvezza del reperto archeologico che, senza il loro
intervento, sarebbe andato disperso o non ricostruito nella sua interezza.
(12) Una volta sottoposti a consistenti alterazioni, i reperti possono attraversare le competenti dogane, in quanto reputati mere riproduzioni. Frederick Schultz, un dealer di New York e presidente di una “ancient art gallery”, ha operato con tali espedienti. Egli ha portato a termine le sue criminali condotte grazie alla complicità di un cittadino inglese, tale Jonathan Tokeley-Parry, che aveva esportato più di 3,000 reperti archeologici fuori dell’Egitto. I beni prima di essere sottoposti ai controlli doganali erano stati coperti con della plastica e sottoposti ad altri camuffamenti. Una volta passate le dogane egiziane, i reperti erano stati restaurati secondo tecniche utilizzate nel 1800 ed immessi sul mercato come provenienti da una antica collezione inglese di cui si alteravano pure le etichette di inventario, immerse nel tè per antichizzarle.
(13) Termini rigorosi alle azioni di rivendicazione sono imposti ad esempio negli Stati Uniti d’America, allorchéun bene sia stato in mostra presso un museo.
(14) Non è sempre facile provare la mala fede di soggetti che con compravendite simulate si introducono nella “gestione” del bene dopo la sua illecita acquisizione. Il proprietario sarà in genere chiamato a rifondere, a titolo di indennizzo, non solo le spese di acquisto del bene, ma anche quelle incontrate per il suo restauro e la sua conservazione.
(15) Ad esempio, presso Giacomo Medici sono state sequestrate delle foto che rappresentavano alcuni affreschi pompeiani nei luoghi di scavo. Per questi stessi reperti archeologici (che essendo stati scavati clandestinamente mai potevano essere registrati come tali in nessun tipo di inventario) è pure stata sequestrata -sempre presso di lui- la relativa interrogazione alla banca dati.
(16) La banca dati nella sua risposta -seppure solo indirettamente- il più delle volte confermava le indicazioni date dal richiedente nel suo interpello circa la natura del bene. Così ed in una certa misura, essa convalidava elementi quali l’autenticità, la datazione e la provenienza, assai importanti per una proficua, successiva compravendita.
(17) I sistemi di “laundering” sopra riportati (ma altri se ne potrebbero indicare) costituivano una costante dell’associazione per delinquere capeggiata da Giacomo Medici, Gianfranco Becchina, Robin Symes e Robert
Emanuel Hecht. Costoro operavano attraverso numerose società di diritto panamense (ben nove, ad esempio, appartenevano a Symes) che utilizzavano come meri “schermi” dietro i quali celare le operazioni sopra indicate.
(18) La recente criminalizzazione delle condotte di auto-riciclaggio può avvantaggiare le investigazioni in merito.
(19) E’ del tutto opportuno togliere alla delinquenza ogni utile derivante dalle azioni criminali perpetrate, in quanto così si elimina l’incentivo principe del loro agire. Va, però, ricordato che dei reperti archeologici non deve essere disposta la confisca -procedimento ablativo che in pochissimi casi ha ragione di essere- in quanto la cosa appartiene ab origine allo Stato. Eccezionalmente, quando il reperto sia stato acquisito prima del 1909 ovvero si trovi all’estero, sarà possibile la confisca. In quest’ultimo caso (reperto in territorio estero), la confisca sarà pronunciabile in quanto lo Stato non è in grado, senza la cooperazione internazionale, di esercitare i poteri che competono al proprietario.
(20) Va anche sottolineato come l’adozione del provvedimento di confisca in presenza di una richiesta di archiviazione è possibile nonostante la sentenza sul caso Varvara, come resa dalla CEDU in data 29 ottobre
2013 (ric. n. 17475 del 2009). La confisca, invero, non costituisce, nell’ordinamento italiano, un istituto unitario e univoco. La confisca di beni culturali e segnatamente di reperti archeologici esportati illecitamente non è equiparabile né avvicinabile alla confisca di terreni lottizzati abusivamente, oggetto della decisione Varvara. La confisca dei terreni lottizzati abusivamente ha una funzione sanzionatoria. La confisca di cui all’art. 174 cit. risponde invece a una finalità essenzialmente recuperatoria di una “res extra commercium” che non può essere sottratta al patrimonio culturale italiano né può uscire dal territorio nazionale e dal dominio che lo Stato esercita su di essa. La finalità recuperatoria prescinde dall’adozione di un provvedimento punitivo nei confronti dell’autore dell’esportazione illecita, avendo l’ordinamento interesse, prima che a sanzionare il reo (o comunque a prescindere dalla sua condanna penale), a recuperare il bene e riportarlo nel territorio italiano
sotto il dominio dello Stato. Infatti, l’obiettivo perseguito dal legislatore è quello di assicurare la massima tutela del patrimonio culturale, in adempimento dell’obbligo costituzionale desumibile dall’art. 9, Costituzione e degli impegni internazionali assunti.
(21) Al riguardo, va richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (si veda tra le altre, Cass. Sez. I, sent. 1927 del 9.12.2004): “… perché -taluno- possa qualificarsi persona estranea al reato e far valere
il diritto al dissequestro e alla restituzione del bene, costui ha l’onere di dimostrare di non aver mantenuto una condotta colposa, costituito dalla mancanza di diligenza nel controllo sull’operato del soggetto che ha materialmente e illecitamente compiuto il fatto costituente reato”.
(22) Il termine va inteso in senso lato, tanto da comprendere in esso sia il fortuito ritrovamento, sia quello conseguente a ricerca, in regime di concessione, ovvero -a maggiore ragione- abusiva.
(23) Il legislatore deve assolutamente mettere mano ad una riforma in materia, sicuramente auspicata da più parti e mai, comunque, tempestiva. Ogni riforma in materia, infatti, abbisogna di diversi anni -se non addirittura di qualche decennio- per essere operativa. Al riguardo, è noto come gli scavi illeciti siano per lo più clandestini, sicché non è affatto agevole determinare, nella maggior parte dei casi, l’epoca della condotta e, quindi, stabilire, in caso di successione di leggi, quale disposizione sia applicabile. Nel dubbio, il giudicante è chiamato ad avvantaggiare il colpevole con la normativa meno severa.
(24) Le anzi citate International Guidelines richiedono espressamente che gli episodi di “looting” vengano puniti come “serious crimes”, vale a dire con sanzioni superiori ai 4 anni di reclusione.
(25) Non sempre i musei, almeno in passato, hanno rispettato i loro codici di condotta, vale a dire quelle norme che tali istituzioni si sono date attraverso l’International Council of Museums, che dal 1986 in poi ha regolato in maniera compiuta le acquisizioni museali. Va pure detto come tali codici spieghino i loro effetti anche rispetto ad acquisizioni che fossero pregresse rispetto alla loro stesura. Trattandosi, infatti, di un complesso di disposizioni che attengono alla doverosa diligenza che deve essere seguita nell’acquisto di beni sovente di alto valore economico e culturale, esse possono trovare applicazione anche per valutare la validità e la liceità di acquisti risalenti nel tempo. In breve, i codici in parola consentono di dare oggettivo contenuto ad elementi quali la buona e mala fede, la diligenza e altri momenti soggettivi della condotta che, seppure
variano nel tempo e a seconda della sensibilità ed esperienza, presentano comunque uno standard minimo che per l’appunto può essere ritenuto quello espresso nei codici in questione. D’altra parte, un valore retroattivo
hanno pure le disposizioni dei codici che obbligano i musei: (i) a non esporre nelle loro sale beni culturali di provenienza illecita o addirittura dubbia perché mancanti di provenienza certa, perché tali esposizioni possono
essere avvertite dalla comunità come attività volta a “condone and contribute to the illicit trade in cultural property”; e (ii) a denunciare quei beni che a loro avviso siano di provenienza dubbia e a “cooperate thereafter even with the restitution of the goods to the country of origin whose norms have been violated”.
(26) Va segnalato, come giudici di diversi ordinamenti siano progressivamente orientati a valutare richieste di restituzione basandosi sulle leggi dei Paesi di origine. Va detto che nel prediligere l’applicazione della “lex originis” (antagonista alla lex rei sitae e alla lex loci) nelle controversie riguardanti i beni culturali, si viene
a ridurre il c.d. “forum shopping”, a cui ricorre quella parte -sovente la più scaltra e con mezzi economici più rilevanti- che viene a scegliere quale giurisdizione adire e quale le è più favorevole. Applicando, invece,
le norme imperative del Paese di origine dei beni, ogni giurisdizione prescelta deciderebbe il caso seguendo la stessa regola (vale a dire, la “lex originis”). Tutto ciò comporta che l’attore non sarebbe avvantaggiato, né l’altra parte svantaggiata, dalle richieste presentate in una giurisdizione piuttosto che in un’altra. Inoltre, la “lex originis” è facilmente prevedibile e conoscibile. Infine, le leggi culturali del Paese di origine sono spesso le norme migliori per giudicare della vertenza e per proteggere valori di portata universale. Risulta, poi, indubbio che la legislazione del Paese di origine sia quella in rapporto giuridico il più immediato e legittimo con il bene medesimo.