CAPIRE L’ALTRO

Conversazione con Matteo Lancini

Qual è l’impatto sociale della cultura nelle giovani generazioni?

Dovete farmi domande più facili. Ho capito che cosa volete dire ma con cultura intendiamo impatto sociale, intendiamo tutto. Per rispondere devo capire che cosa intendiamo per cultura. Perché il tema cultura è un tema che va delimitato all’interno di una questione importante e di quali sono le culture e le culture giovanili. Secondo me l’aspetto principale della cultura è legato all’aspetto degli affetti della persona. La cultura della musica, la cultura televisiva, la cultura della scuola.

Il vero problema sta nella fragilità degli adulti che non consente loro di identificarsi con chi hanno davanti. Le proposte che vengono fatte in primis dalla scuola, ma così come dalle organizzazioni culturali, sono dentro un sistema preordinato di adulti talmente fragili da non rendersi conto di chi hanno davanti: non sono in nessun modo sintonizzate col sistema affettivo, relazionale, emotivo, attuale e futuro delle nuove generazioni.

Un problema di linguaggi?

No. Prendo spunto dalla vostra prima domanda e dico: è una domanda che io non capisco e alla quale non so rispondere. La prendo come una dimensione di ciò che succede molto spesso. I ragazzi devono provare a prendersi carico degli adulti che fanno una proposta che parte dalla sensazione che gli adulti hanno di cultura, senza però porsi domande su come funziona per l’altro.

E non è un problema di empatia. È un problema di che cosa vuol dire essere nati negli anni 2000 davanti ad adulti che fanno delle proposte più funzionali a loro stessi per essere, come dire, in qualche modo autorevoli e semplificatori senza fare, invece, ciò a cui dedico la vita: capire l’altro, chi è, fargli domande e, quindi, fargli una proposta che sia compatibile con lui, in base a chi sono davvero gli adolescenti. Quindi, tornando a questo, dobbiamo capire cos’è l’impatto culturale delle generazioni, perché oggi la cultura non tiene conto di che cosa significa costruire una cultura giovanile e cosa è cultura per i giovani. E io non ne ho davvero la più pallida idea anche perché identifichiamo i giovani come categoria solo perché a noi serve per discutere. Ma i giovani non sono una categoria e così per uno la cultura può essere il neomelodico napoletano, per un altro la cultura è un’ideologia. E quindi che cos’è la cultura? Ditemelo voi.

La cultura può essere una mostra d’arte, il cinema, la musica, il teatro, Chiara Ferragni, il Festival di Sanremo. Oggi, dentro una società così complessa e liquida, la definizione di cultura è individuale, ognuno ha la propria visione di che cosa intende per cultura. Io posso solo provare a dire cosa sono le culture giovanili: il modo attraverso il quale ogni generazione costruisce forme di sperimentazione dei compiti evolutivi della propria identità tra modelli di identificazione e comportamenti. Quindi l’abbigliamento è un modo di fare cultura. La musica che ascolti è un modo di fare cultura. Il modo attraverso il quale costruisci i rapporti e ami, la cultura del corpo. Con culture giovanili si intendono quindi le modalità attraverso cui, nella fase dell’adolescenza, si è chiamati a costruire una propria identità, in parte ispirandosi ai modelli di identificazione che si trovano intorno a sé, in parte creandola ex novo.

E, quindi, che cosa possono e devono fare gli operatori culturali?

Prima di tutto bisogna conoscere i propri interlocutori, che visione hanno loro del mondo, che cosa intendono. C’è sempre troppo spesso una dimensione dove manca l’ascolto di chi è l’altro, dove non stai parlando ai giovani ma stai parlando ai giovani che hai nella tua mente.

I ragazzi non trovano adulti con cui potere parlare perché l’adulto è troppo impegnato a dire “adesso ti faccio una proposta”, mentre le loro esigenze sono quelle di esprimere molto di più il senso di fallimento, il dolore, la paura di non farcela, la paura di deludere l’adulto, la paura di deludere se stessi, le aspettative interiorizzate in una società dove successo, popolarità, fallimenti sono stati rimossi a partire dal modo di crescere in famiglia, dalla scuola, dalla società di internet.

Che tipo di attività proporre?

Dipende dalle situazioni. Gli insegnanti migliori di oggi sanno che l’apprendimento nasce attraverso la costruzione dei saperi dal basso e la valorizzazione dell’errore come parte costituente del sapere. È in questo senso, secondo me, che si produce una cultura generazionale. Dopodiché le forme attraverso le quali ognuno la tira fuori sono personali: un ragazzo può essere bravo a parlare, un altro a suonare uno strumento, uno a disegnare, uno a scrivere, uno a produrre contenuti da youtuber o influencer. Sono comunque tutte produzioni culturali.

Ci sono delle differenze tra i diversi gradi di istruzione (scuola secondaria di secondo grado, università, ecc.) per quanto riguarda la predisposizione all’ascolto dei ragazzi e la formulazione di proposte culturali?

Le scuole in Italia sono 41.000, parliamo di 900.000 docenti. E ogni scuola funziona a proprio modo, ogni classe funziona a proprio modo. E l’università è ancora un’altra cosa ancora perché si tratta di giovani adulti, dove non esiste più un gruppo/classe, non esiste un soggetto strutturato a cui eventualmente fare una proposta univoca.

Io penso che il tema vero sia che la scuola, in generale, è da tanto tempo distaccata dai ragazzi e dalle loro esigenze. È vero che negli ultimi anni le scuole secondarie di secondo grado hanno provato ad aprirsi ad attività di ascolto, di prevenzione, ma rimane un caso limitato ad alcune scuole e aree specifiche. Nella maggior parte dei casi manca una reale attenzione alla produzione culturale, all’espressione del sé, alla lezione che non parta dalla cattedra. La scuola secondaria di secondo grado è il luogo dove nasce la dispersione scolastica (nel 90% dei casi si verifica nel biennio delle superiori) e dove l’apprendimento è concepito come un ripetere all’interlocutore-insegnante quello che lui ha spiegato. Ci sarebbe invece bisogno di una scuola dove i ragazzi possano costruire il sé e avvicinarsi al mondo del lavoro. Perché cultura in adolescenza ha a che fare con la costruzione di un’identità legata alla realizzazione di sé stessi e del proprio futuro. L’insegnamento dovrebbe essere utilizzato per la costruzione del proprio processo identitario, del proprio modo di intendere la cultura, la relazione con l’ambiente, con il sapere, con l’arte, la musica, il teatro, il proprio corpo. Invece troppo spesso l’apprendimento è inteso come un atteggiamento passivo, in cui ci si mette in ascolto di un adulto che dice cos’è la cultura, una cultura “prefabbricata”, “oggettiva” e, oltretutto, basata su una suddivisione dei saperi che non ha più senso di esistere. Infatti, dividere la chimica dalla fisica, la storia dalla geografia è stata un’invenzione degli uomini del tutto arbitraria, avvenuta ad un certo momento della storia. Oggi, al tempo di Internet e della commistione dei saperi, ci sarebbe bisogno di una scuola che non tenga più separate le materie, ma piuttosto affronti tematiche dal più ampio respiro, come ad esempio la sostenibilità del pianeta, la sofferenza, il dolore, ecc.

Dunque, il tema di fondo è che bisognerebbe modificare questi aspetti, sia nel modo di intendere la relazione con il mondo esterno, sia nella relazione con l’apprendimento e il sapere, per far sentire i ragazzi parte di un processo culturale in divenire.

Il senso è un approccio dove si dice ai ragazzi “questo è il vostro spazio, anche ampio, fate quello che volete”, ma è un qualcosa in cui le generazioni dialogano, che si costruisce insieme. Ai ragazzi interessa il confronto con le altre generazioni?

Penso di sì. Il tema è che questa domanda la dobbiamo collocare, proprio per questo, all’interno del conteso con cui si formula una proposta culturale per i ragazzi: essere in una scuola e costruire un processo di apprendimento che dura tutti i giorni per 5, 6 o 8 ore al giorno è diverso rispetto ad incontrare i ragazzi una sola volta per 2 ore. E, inoltre, occorre a che gruppo ci rivolgiamo. Un gruppo spontaneo? Un gruppo senza una motivazione specifica? Un gruppo obbligato?

Da trent’anni noi come Minotauro costruiamo solo progetti ad hoc perché se vuoi essere davvero credibile devi costruire un progetto in base ad una serie di variabili: chi sono i ragazzi, cosa vogliono, da dove arrivano, chi finanzia il progetto, ecc.

Un esempio?

Recentemente ho presentato a Book City una ricerca sui festival di approfondimento culturale e sulla partecipazione giovanile.

Questi festival sono spesso accusati di vivere grazie ai volontari che sono quasi tutti adolescenti o universitari e che rispondono in un numero sempre straordinario. Perché lo fanno? Perché sono proposte in cui gli adulti fanno sentire i ragazzi come appartenenti a una territorialità, usando il giusto protagonismo, dando loro un ruolo, una maglietta, facendoli sentire parte di un progetto che porta qualcosa al territorio.

Con tutti i limiti del caso queste esperienze testimoniano che i ragazzi di oggi non hanno bisogno di prodotti preconfezionati e neppure si oppongono all’adulto a prescindere, ma hanno bisogno di essere convocati e sentirsi protagonisti di un progetto, un’esperienza che li faccia sentire parte del processo con ruoli, a volte volontari, a volte retribuiti. Ed è ciò che dovrebbe fare anche la scuola.

Spesso iniziative di questo tipo sollevano polemiche da parte di attori terzi che denunciano lo sfruttamento dei ragazzi. Cosa ne pensa?

È vero, questo è uno dei problemi anche all’interno dei festival culturali che citavo prima. Ci sarebbe da aprire riflessioni sulla possibilità di retribuire gli incarichi affidati ai ragazzi. Con il PNRR stanno arrivando un sacco di soldi a finanziare queste attività e si potrebbero destinarne una parte proprio ai ragazzi...

Matteo Lancini è uno psicologo e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica. Presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca e presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano. È direttore del Master “Prevenzione e trattamento della dipendenza da internet in adolescenza” e insegna nella Scuola di formazione in Psicoterapia dell’adolescente e del giovane adulto del Minotauro.