E "adesso" come si mangia con la cultura?

di Paola Dubini

Pubblicato in ÆS ARTS+ECONOMICS N°9 febbraio 2021

Inutile girarci intorno: per le organizzazioni culturali il Covid è stato uno tsunami. Ha fatto emergere tutte le criticità e tutte insieme:

  • Molte organizzazioni culturali sono sottocapitalizzate; e – spiace dirlo – “tirano avanti” grazie alla cassa. E poiché la cassa si è asciugata dall’oggi al domani, queste organizzazioni sono andate per terra nel giro di pochissimo tempo.
  • L’inadeguata remunerazione del lavoro culturale è un’altra caratteristica di molti comparti. Non di tutto il lavoro culturale per carità; accanto alle pochissime star iper remunerate, ci sono diverse figure professionali che possono contare su una equa remunerazione e su meccanismi di crescita professionale e avanzamento di carriera adeguati. In compenso, ampie sacche di operatori non hanno sicurezza di impiego, prospettive di carriera, lavorano saltuariamente e ricevono compensi davvero ridicoli. E con il Covid la loro situazione occupazionale non è migliorata, anzi. Per quanto le misure di sostegno messe in atto dallo Stato, da enti locali, dalla SIAE, da imprese e operatori abbiano avuto bene in mente questo stato di cose, le categorie fragili sono tante. E tanta della nuova produzione culturale di questi mesi è stata autoproduzione.
  • Il rapporto con le tecnologie digitali è stato preso di petto con il Covid; un po’ tardi e un po’ di fretta, per così dire. Anche in questo caso, naturalmente, sarebbe ingiusto generalizzare, pero’ istituzioni anche importanti hanno mostrato quanta strada ci sia da fare per rendere “fluida” la relazione fra filiera fisica, live e online.

Però, e questa è una cosa molto importante, le settimane di lockdown ci hanno fatto vedere con evidenza, senza se e senza ma, quanto abbiamo bisogno di cultura, quanto la cultura sia parte di noi, pratica quotidiana. Che fosse disvelata nelle programmazioni RAI – finalmente una televisione pubblica che fa il suo mestiere – nei canti di “Va’ pensiero” alle finestre, nelle produzioni e nella condivisione di ricette di famiglia a base di lievito madre, che fosse per le abbuffate di Netflix, di videogiochi, di news online, che fosse per quelle immagini bellissime e vagamente inquietanti dei nostri straordinari monumenti in piazze deserte, abbiamo capito tutti senza retorica che abbiamo bisogno di cultura come dell’aria, mentre eravamo un po’ meno  consumatori e un po’ più cittadini.

E l’altra cosa molto importante che è successa è stata che le organizzazioni culturali hanno capito immediatamente di essere soggette a tsunami, e che era necessario rendersi visibili. Per cui, tutti si sono precipitati online freneticamente, tutti hanno partecipato a gare di solidarietà, tutti hanno lanciato esperimenti – anche molto interessanti e seguiti – di valorizzazione del catalogo e di produzione di nuovi contenuti digitali ed esperimenti vari di audience development e audience engagement. La reazione non ha riguardato solo l’offerta digitale, ma anche quella fisica, con esperimenti di varia natura di consegne di prodotti “ultimo miglio”. Diverse librerie hanno sviluppato un servizio di consegne a domicilio, o si sono accordate con le edicole locali per far arrivare i libri ai propri lettori nel momento in cui Amazon ha allentato la presa su questa categoria di prodotti. E – grazie all’aiuto lungimirante di alcuni editori e di alcune società – si sono poste il problema di replicare le soluzioni via via trovate su un territorio più ampio, costituendo reti di distribuzione. Ci fossero state qualche anno fa, forse Amazon oggi sarebbe meno potente. Ma si sa che con i se e con i ma non si va da nessuna parte.

Che cosa possiamo aspettarci ora? Temo che lo tsunami spazzerà via alcune organizzazioni; la crisi è stata intensa ed improvvisa, la ripresa sarà lenta. E quindi occorrerà prestare molta attenzione alla “alopecia culturale”, ad una pericolosa desertificazione culturale a chiazze, con aree con una offerta talmente rarefatta da non riuscire a stimolare o soddisfare la domanda. Per contrastarla, occorre a mio parere lavorare pragmaticamente e in modo specifico a rendere esplicito perché e a chi il lavoro culturale si indirizza. La situazione paradossale che si va creando, infatti, è che il dopo Covid non esaurisce il bisogno di cultura, anzi. Tuttavia, accanto ad una crescente legittimazione, le condizioni di sostenibilità economica diventano più difficili.

In quali direzioni orientare lo sforzo?  E con quali modalità?

A me pare che la crisi abbia aperto grandi spazi di lavoro, coerenti con le vocazioni “tipiche”delle organizzazioni culturali:

  • Da un lato, un semestre o quasi di scuola a distanza chiama ad un rapporto molto più stretto e interdipendente con il mondo della scuola. Che si tratti di bisogno di spazi, di attività di socializzazione, di trasferire su alcune organizzazioni culturali l’onere di svolgere parte del programma scolastico, il perimetro di lavoro è largo. Le organizzazioni culturali sono chiamate a farsi parte attiva e propositiva di una comunità educante, che non puo’ certo sostituirsi alla scuola, ma che con la scuola (e con le famiglie) dovrà lavorare in modo più stretto.
  • Dall’altro lato, non possiamo dimenticarci che per loro natura le organizzazioni culturali lavorano a definire le condizioni di socialità. Dopo mesi in cui le nostre relazioni interpersonali sono state definite per decreto, forse potremmo chiedere ad alcune organizzazioni culturali (penso ad esempio alle compagnie di danza, al mondo del teatro) di aiutarci da un lato ad essere più attenti e responsabili nei nostri movimenti, dall’altro ad avere fiducia nel senso di responsabilità degli
  • Chi lavora in ambito turistico è chiamato ad un non banale sforzo di valorizzazione delle proprie risorse per un pubblico vicino e domestico. Per chi era abituato a lavorare prevalentemente con pubblici stranieri sarà una bella differenza; la sostituzione non sarà automatica. Possiamo aspettarci in generale una maggiore aspettativa di servizio e una attenzione maggiore alla comunicazione e all’intera esperienza di visita. Questo significa per le organizzazioni culturali uno sforzo di “sponda” con gli operatori turistici, con chi si occupa di logistica e accoglienza ben più puntuale di quanto accadesse prima del Covid.
  • C’è poi la questione del digitale: i numerosi esperimenti dovranno essere conclusi, per fare spazio ad attività che diventino parte integrante dell’offerta culturale da una parte e dell’esperienza di fruizione dal lato della domanda. Si apre un tema di massa critica, di investimento necessario per ottenere adeguata visibilità, di canali da attivare.
  • E infine la cultura è anche ricerca e questi mesi hanno modificato in modo significativo i modi di fare ricerca. Penso che siano risultate evidenti le molte carenze e le molte opportunità collegate ai modi di accedere a contenuti in formato digitale e ai modi di costruire nuova conoscenza.

Mentre le “superstar culturali” (le grandi organizzazioni con reputazione internazionale, le sedi museali più prestigiose, i grandi teatri) sono a riflettere su come coprire gli elevati costi fissi e a compensare l’assenza (si spera temporanea) di visitatori stranieri, le numerosissime organizzazioni culturali che si muovono a livello territoriale hanno a che fare con le tre parole chiave del momento: prossimità, diffuso, interno.

In presenza di risorse scarsissime, la possibilità di costruire modelli di business sostenibili che mobilitino pubblico di prossimità, siano diffuse (nelle città, nei territori, fra le comunità) e lavorino nelle aree o nei quartieri periferici richiede molto coordinamento, molta attenzione, molto ascolto e una buona dose di collaborazione fra operatori in grado di dimostrare di essere competenti.  E serve chi faccia da catalizzatore a livello territoriale e digitale, che sia in grado di centralizzare e redistribuire le informazioni sulla rete capillare e specifica dei diversi operatori. La alopecia culturale si può e si deve contrastare.


Paola Dubini è professoressa di management all’Università Bocconi di Milano, ricercatrice del centro ASK della medesima università, visiting professor all’IMT di Lucca. Da circa 20 anni, i suoi interessi di ricerca e professionali sono rivolti alle condizioni di sostenibilità delle organizzazioni culturali, private, pubbliche e no profit e alle politiche territoriali per la cultura in una prospettiva di sviluppo sostenibile. Partecipa a diverse manifestazioni e incontri nazionali e internazionali su questi temi ed è autrice di numerose pubblicazioni. Fra le più recenti Dubini et al Institutionalising fragility Fondazione Feltrinelli 2016; Dubini et al “Management delle organizzazioni culturali” Egea 2017; Dubini Con la cultura non si mangia.falso! Laterza 2018.