È PIÙ FACILE PENSARE ALLA FINE DEL MONDO CHE ALLA FINE DEL CAPITALISMO

di Franco Broccardi

Don’t look up è un film parecchio noto e di conseguenza parecchio visto e apprezzato. Parecchio parecchio, intendo. Una metafora, un film il cui significato è molto semplice, inquietante, vero e per nulla celato: se non facciamo qualcosa moriremo tutti presto. E non serenamente, oltretutto.

Uno dice: così tanti hanno visto il film che ti aspetti che scatti un allarme globale e profondo sulle crisi che stiamo attraversando, partendo da quella climatica per arrivare a quella sociale. Una discussione seria, dei provvedimenti urgenti. Invece no. Tutto tace, i governanti si perdono in sterili discussioni con sterilissime conclusioni e i giovani si arrabbiano. Parecchio parecchio.

Allo stesso modo, durante il lockdown, i Massive Attack hanno pubblicato il video ep #//Eutopia . Ciascuna delle tre tracce che consiglio a tutti di andare a vedere, leggere e ascoltare insiste su una questione politica creando un dialogo sonoro e visivo su questioni globali e strutturali come l’emergenza climatica, i paradisi fiscali e il reddito di base universale. In particolare, uno dei video affronta appunto il tema delle crisi, quelle con cui quotidianamente abbiamo a che fare e di come dovremmo affrontarle. In questo pezzo Christiana Figueres, ex Segretario Esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, afferma che prima che la crisi del COVID-19 si abbattesse sul nostro mondo, i governi stavano già affrontando un accordo sulla crisi climatica, sulla crisi della disuguaglianza e sulla crisi del prezzo del petrolio. Ora, la quarta: la crisi sanitaria globale non solo colpisce tutti noi, ma ha accelerato gli impatti delle crisi precedenti, intensificando il disordine economico e accentuando la sofferenza sociale. Dall’emergere di ciò ognuno può fare la propria parte individualmente e collettivamente.

La crisi ambientale diventa economica e infine sociale e colpisce le fasce più deboli della società alimentando le disuguaglianze, l’innalzamento dei mari sta portando alcune popolazioni a richiedere asilo in qualità di rifugiati climatici. Tutto è connesso, ambiente, uguaglianza sociale, economia, salute pubblica. Lo siamo tutti noi e non solo per via di internet e una cultura che sia davvero Cultura non può pensarla diversamente. Non può non pensarsi un soggetto politico con un impatto sociale.

Eppure. Eppure, ancora adesso a parlarne in giro si sentono resistenze, distinguo, freni. Non mancano mai creature orribili che depredano gli esseri umani, strappano via il loro cibo o divorano intere popolazioni, ma gli esempi di una saggia pianificazione sociale non sono così facili da trovare. Questa frase è la base del progetto #//Eutopia che indica, anche nell’idea di Robert Del Naja che ne è l’ideatore, la linea necessaria verso, appunto, la saggia pianificazione sociale. La contrapposizione di questo con la tendenza elitaria che spesso riscontriamo nelle dinamiche sociali in cui la ricchezza tende sempre più a polarizzarsi verso pochi soggetti e che nel mondo vicino alla cultura ha spesso condizionato la scena e mostrato la discrepanza tra le diverse anime che ne compongono questo variegato mondo, segna una delle crepe del capitalismo moderno.

Le azioni dei ragazzi di Just Stop Oil e, in Italia, di Ultima Generazione, a questo si riferiscono. Alla sordità di tutti, cultura compresa, verso temi che comportano la sopravvivenza di tutti ed è per questo che hanno perfettamente ragione a essere arrabbiati. Lo sono davvero perché la cosa più preziosa che hanno, il futuro, rischia di non esistere. E ce lo urlano in faccia come possono perché in fondo cosa te ne fai di un museo quando sarà allagato o se una frana lo seppellirà? Perché cose come il MOSE e come tutto ciò che possiamo inventarci sono un rimedio temporaneo, non una soluzione al problema.

Dobbiamo cercare, tutti nessuno escluso, personalmente e in forma aggregata, di trasformare questa rabbia in azione. Cerchiamo di cambiare le cose davvero perché chi nasce oggi abbia qualche possibilità di morire anziano.

Quando Dan Halter riprende un discorso della scrittrice e attivista Kimberly Latrice Jones a favore del movimento Black Lives Matter (in cui usa una metafora che si appropria del Monopoli) e lo trasforma in un’opera d’arte (a sua volta a forma di Monopoli) non ne svilisce il senso ma lo fa proprio e, anzi, ne esalta il valore. E allora perché dobbiamo pensare che sia offensivo appropriarsi di un’opera d’arte e farla parte di una denuncia sociale, di una protesta ambientalista e in generale di una proposizione e di valori? Quale scarsa considerazione abbiamo dell’arte se la pensiamo avulsa dal mondo e distante dalle persone? È facile essere solidali rimanendo ben saldi sul proprio piedistallo. Senza schierarsi davvero. Ed è questo che troppo spesso arte e cultura (o meglio, le persone che dicono di occuparsi di arte e cultura) fanno. Ma allora, alla domanda che Kimberly Latrice Jones si è posta nel proprio discorso, how can we win?, non rimane che darle ragione e dire you can’t win. Non puoi quando ognuno guarda solo al proprio al di là delle belle parole che dice. Non puoi perché il gioco è fisso. Quindi quando dicono “perché bruci la comunità? perché bruci il tuo stesso quartiere?” (rispondiamo) non è nostro. Noi non possediamo nulla. E questo è ancor più vero e tragico quando ciò che non possiedi più è il tuo futuro.

Quindi la cultura, l’arte, i musei come si pongono o dovrebbero farlo di fronte alle sfide che impattano sulle vite di ognuno di noi, sulle crisi che ogni giorno ci troviamo ad affrontare e ogni giorno si rivelano più gravi e profonde?

Alva Noë è un filosofo della mente e scienziato cognitivo statunitense, per il quale percepire, essere coscienti, è anzitutto muoversi, agire. Come ha scritto a proposito di John Dewey aveva ragione quando affermava che il museo, in un certo senso, è antitetico all’arte, proprio perché non è possibile fare esperienza dell’arte semplicemente guardandola, prendendo nota di ciò che dice l’audioguida o l’esperto, come se i valori dell’arte fossero facili da trasmettere! Le opere d’arte non stanno in bella mostra nei musei affinché tutti possano semplicemente guardarle. Pubblico e creatori interagiscono attraverso le opportunità realizzate dagli artisti. Non ci limitiamo a percepire l’arte, la mettiamo in scena.

Per Dewey l’opera d’arte è un’esperienza, e come tale si vive dal lato di chi la esperisce, non di chi la crea. Se no non ha nessun valore.

Siamo tutti artisti. Viviamo, e la vita è un processo che consiste nel fare esperienza, nell’ideare risposte creative rispetto a ciò che facciamo come reazione a quanto sta già accadendo. Ma l’arte è ancora altro. In ultima istanza, l’arte è filosofia, perché consiste nel mettere in mostra tutto ciò che riguarda la nostra condizione e la nostra natura di esseri umani. Noi siamo tutti artisti, nella misura in cui, come abbiamo visto in questo libro e come scrive Dewey, il bisogno di fare arte, il bisogno di fare filosofia, il bisogno di conoscere, sono tutti presenti laddove siamo presenti noi, ovunque ci sia un essere umano. Allo stesso modo si è spesso espressa Hito Steyerl ponendosi una domanda di cui la post-Covid age ha amplificato il bisogno di risposta: qual è la ragione d’essere di un museo? La storia esiste solo se c’è un domani. E, per contro, un futuro esiste solo se si impedisce al passato di infiltrarsi continuamente nel presente… Di conseguenza, i musei non hanno a che fare con il passato, ma piuttosto con il futuro: l’obiettivo della conservazione non è tanto preservare il passato quanto creare il futuro dello spazio pubblico, il futuro dell’arte e il futuro in quanto tale. Se questo non è chiaro il museo si riduce al ruolo di uno zoo, le opere a poveri oggetti in cattività.

Gli animali isolati l’uno dall’altro, senza interazione tra specie, hanno finito per dipendere completamente dai loro guardiani. John Berger nella sua raccolta di saggi Sul guardare rivela l’innaturalezza dei comportamenti di chi o ciò che è costretto all’inazione, in cui la prospettiva futura auspicata da Steyerl semplicemente non esiste.

Ma siamo sicuri che lo stesso non accada con le opere messe in cattività nei musei quando queste non riescono più a incrociare il pensiero delle persone? Che arte e cultura, ridotti a questo, non finiscano con l’essere strumento di un pensiero unico e illiberale anche quando ammantato di progressismo? Che un museo che riduca la creatività a vetrina, a una semplice esposizione di opere non sia davvero una gabbia non molto diversa da quelle in cui si rinchiudono gli animali per soddisfare una malata curiosità?

In un suo famoso articolo che, lo ammetto, cito molto spesso Economist as Plumber, Esther Duflo ha esortato gli economisti a impegnarsi seriamente nella progettazione di nuove politiche e programmi, assumendosi la responsabilità di conseguenze ed eventuali aggiustamenti (proprio come fanno gli idraulici), nell’interesse della disciplina e della società. Vale per gli economisti, perché non deve valere per tutti? Perché qualcuno si dovrebbe sentire esentato o dovrebbe pensare di aver fatto abbastanza? La parafrasi dell’idraulico ci permette di associare il titolo di questo articolo a un altro saggio, Le role fondamental du plombier dans le porno per trovare nuove strade ed è in fondo quello che ci racconta Duflo: l’innovazione passa dalla capacità di non avere pregiudizi. Passa dall’inclusione culturale, dall’alfabetizzazione funzionale, dalla comprensione del valore e tutti siamo chiamati a fare la nostra parte per lavorare a questo, per cambiare sistema e schemi mentali. Tutti hanno alle spalle una storia di contaminazione. La purezza non è un’opzione disponibile. Un aspetto prezioso della riflessione sulla precarietà è che ci ricorda che cambiare a seconda delle circostanze è la materia stessa della sopravvivenza.

La disuguaglianza impatta fortemente sulle prospettive economiche, sociali, intellettuali e politiche e l’elemento decisivo per il progresso umano e lo sviluppo economico è quindi la lotta per un nuovo orizzonte partecipativo, basato sull’uguaglianza, la proprietà sociale, l’educazione e la condivisione del sapere e dei poteri.

Ecco perché parlare di disuguaglianza in un articolo che lavora sulla cultura. Perché l’innovazione, e di conseguenza la possibilità che le disparità possano in qualche modo essere previste, denunciate, corrette, passa dalla cultura ancor prima che dalla tecnologia. È il ruolo sociale dell’arte e della cultura senza il quale queste non hanno ragione d’essere. È l’idea di sostenibilità che deve avere al centro tutto questo e che senza non porta da nessuna parte.

L’avvento di una idea innovativa rende obsolete le idee precedenti; in altre parole, la crescita fondata sulla distruzione creatrice è il teatro di un conflitto perpetuo tra il vecchio e il nuovo. Questo non significa ricercare la distruzione del capitalismo ma di puntare e soluzioni politiche che sappiano indirizzarsi verso politiche fiscali redistributive, politiche economiche che favoriscano in maniera massiccia una innovazione verde, politiche sociali inclusive.

La lezione di un economista, Philippe Aghion, si accorda perfettamente con la reazione di ICOM, l’Internantional Council of Museums alle azioni di attivismo climatico nei musei: La società civile è un attore chiave nell’azione per il clima: da ONG, reti e attivisti a istituzioni culturali e musei. Dobbiamo intensificare per il nostro pianeta collettivamente e uniti, perché non esiste soluzione climatica senza trasformare il nostro mondo. Trasformazione operativa e di pensiero. Innovazione, quindi. In questo modo ICOM, a dispetto di molte altre reazioni più oscurantiste al limite del paternalismo se non del negazionismo ha condiviso le preoccupazioni degli attivisti climatici mentre affrontiamo una catastrofe ambientale che minaccia la vita sulla Terra. ICOM vede la scelta dei musei come sfondo per queste proteste climatiche come una testimonianza del loro potere simbolico e rilevanza nelle discussioni sull’emergenza climatica… ICOM desidera che i musei siano visti come alleati nell’affrontare la minaccia comune del cambiamento climatico. Tutto si accorda e nulla può pensarsi autonomo se non votandosi al fallimento. Sostenibilità sociale, ambientale, economica, impegno culturale, lotta alle disuguaglianze sono parti di un tutto anche se tendiamo spesso a dimenticarlo. E così tornando al titolo di questo articolo è forse vero che è più facile pensare alla fine del mondo che non alla fine del capitalismo ma in fin dei conti, forse, è perché il capitalismo lo proteggiamo di più di ogni altra cosa, pensando al di qua del naso. Che non è mai una gran cosa per quanto lungo quel naso possa essere a furia di dire bugie.

Dottore commercialista, esperto in economia della cultura, arts management e gestione e organizzazione aziendale, ricopre incarichi come consulente e revisore per Federculture, ICOM, AWI, ADEI oltre che per musei, teatri, gallerie d’arte, fondazioni e associazioni culturali. È coordinatore dell’Academy Assobenefit.