Il bianco silenzio del mondo
di Paolo Fresu
Pubblicato in ÆS ARTS+ECONOMICS N°8 giugno 2020
L’infezione del coronavirus dimostra quanto il mondo sia diventato infinitamente piccolo.
Le parole locale e globale sono state inglobate nel termine glocal e questo rappresenta, nel bene e nel male, un pianeta troppo grande e troppo piccolo nel medesimo tempo.
Talmente vasto e nel contempo minuscolo da generare una pandemica migrazione che naviga più veloce della rete.
Quand’ero bambino il ricco vocabolario della limba (lingua, in sardo logudorese)era la rappresentazione di un universo senza tempo nelquale le parole non avevano ancora niente di evocativo,ma semplicemente erano parte della realtà. Pure presenzesonore, quasi minerali, che avevo interiorizzato findal grembo materno, quando mi arrivavano amplificateattraverso il liquido amniotico. Lingua in quanto vitadunque, e suono in quanto origine di tutto.
Solo successivamente sa limba ha assunto anche un significato altro che era quello di strumento per relazionarmi alla comunità. Negli anni, attraversando e colmando quello spazio geografico e temporale che separava la mia campagna d’infanzia dalla vita del paese, la lingua ha acquisito un diverso significato, spogliandosi di quel senso intimo e arricchendosi di quello più universale che appartiene a tutte le lingue parlate, cantate e vissute in tutte le parti del mondo e in tutte le realtà, siano esse rurali o metropolitane. È diventata un mezzo per comunicare, per dialogare, per affermarsi, per spiegarsi, per imporsi. Dal suono ancestrale delicato e quasi sussurrato al suono dinamico legato al forte e a volte al fortissimo.
Da rappresentazione dell’essere a strumento di comunicazione.
Siamo abituati a pensare al piccolo come locale e al grande come globale, quando anche nel microcosmo delle cose esiste una globalità che è solo da vedere e da sentire.
Televisione, computer e devices sono gli oggetti tecnologia del quotidiano che portano il mondo nelle nostre case. Tracciando nuove geografie e costruendo snodi e crocevia che ci costringono a vedere il mondo sempre più vicino, scoprendo così che le nostre scelte locali si riflettono poi nella globalità. E anche se potrebbe sembrare che siano le scelte globali a riflettersi prepotentemente e in modo evidente nel nostro locale, in realtà è la scelta responsabile di ognuno di noi a creare il percorso dell’uomo decretandone la sua qualità di vita anche attraverso lo stato di salute del pianeta.
Due termini che s’incontrano quando si crea una connessione idiomatica ancora prima che tecnologica, antropologica o culturale e che, come per il micro e macro, raccontano il contemporaneo e la memoria che lo forma.
Dunque, un suono che è metafora del dentro e del fuori e che è la rappresentazione della vita.
È cruciale dunque che la musica non debba conoscere confini e debba contribuire ad abbattere tutte le barriere e tutti i muri che oggi si vanno innalzando.
Il jazz in particolare non sarebbe nato senza le migrazioni dei primi del Novecento. È musica meticcia per antonomasia, capace di colmare le differenze e metabolizzarle nel tempo presente ed è proprio questa apertura alla speranza a mostrare quanto la diversità sia capace di arricchire la tavolozza timbrica e semantica della produzione artistica.
In quanto artisti abbiamo il sacrosanto diritto al rappresentarci, tutti e indistintamente, attraverso i suoni. Per esprimere il nostro pensiero e per contribuire con lo strumento dell’arte, al cambiamento del pianeta e alla riflessione sul rispetto della nostra casa-terra.
Diritto questo che spesso viene spesso calpestato in molti stati totalitari che tolgono alle persone e agli artisti la possibilità di esprimere le proprie idee, pena la privazione della libertà fisica. Un diritto calpestato spesso anche dietro l’angolo di casa nostra attraverso la gogna mediatica dei social.
È per questo che è sempre più importante e necessario respirare un’arte capace di portarci verso l’introspezione. Un’arte che deve vivere già dalla prima infanzia affinché ogni essere umano sia capace di conoscere meglio sé stesso per poter poi conoscere il prossimo. Quello vicino e quello apparentemente lontano.
La musica è un linguaggio universale in grado di abbattere le barriere; quelle geografiche e religiose, economiche e culturali.
È il suono del mare e della sua risacca. Il rumore di un barcone che cerca un approdo. È il vero linguaggio del mondo capace di essere compreso da tutti e che colpisce ed emoziona alla stregua di una pandemia emozionale che ci fa essere tutti uguali. Dall’Africa all’Europa, dal Sudamerica all’Australia passando per le grandi metropoli occidentali e i piccoli villaggi del Mezzogiorno d’Italia.
La musica è dunque un mare e un ponte. Un oceano meno vasto della nostra immaginazione e un labile pensiero che cammina più veloce delle comunicazioni.
Sono convinto che tutti gli artisti debbano usare il proprio strumento creativo per migliorare sé stessi e il mondo. Altresì convinto che la musica non potrà risolvere tutti i problemi ma potrà contribuire, con la sua forza comunicativa ed emozionale, a smuovere le coscienze e a migliorarci promuovendo un possibile cambiamento attraverso una melodia, una armonia e un suono che dialoga.
Significa fermarsi a conoscere un’altra storia che non è la nostra, sentire e percepire un altro suono che racconta un’altra umanità, incontrare la diversità.
È una forma di intelligenza progettuale oltre che di capacità dialettica che genera, attraverso l’interplay, quel silenzio scaturito dal dialogo.
Nel bellissimo libro di Claudio Abbado Ascoltare il silenzio il grande direttore d’orchestra chiede espressamente di non applaudire immediatamente alla fine della esecuzione della nona sinfonia di Mahler. Attendendo qualche minuto è la forza e lo spessore della musica del grande compositore boemo si stemperino ed evitando che la musica perda forza quando non incorniciata dal silenzio.
È come se un Botticelli venisse esposto assieme ad una enorme quantità di altri quadri che anche toglierebbero lo spazio necessario per potere coglierne la bellezza.
Il silenzio è dunque bianco come la parete di una stanza.
Bianca è l’innocenza e la bellezza delle anime pure che, nonostante i tempi bui del nostro contemporaneo, continuano ad attraversare un pianeta sempre più piccolo, più vasto e più abitato.
Pianeta che si avviluppa su sé stesso alla perenne ricerca di una verità che, ancora una volta, è suono ancor prima che vita.
Paolo Fresu è un jazzista di fama internazionale. Ha suonato in tutto il mondo, insieme ai nomi più importanti della musica afroamericana degli ultimi 35 anni. Ha ricevuto numerosi premi e nel 2010 ha fondato l'etichetta discografica Tŭk Music. Dirige il Festival ‘Time in jazz’ di Berchidda ed è stato per un quarto di secolo direttore artistico e docente dei Seminari jazz di Nuoro.
Vive tra Parigi, Bologna e la Sardegna, sua terra natale.