Il sistema nazionale dei musei: esempio di volano economico, palestra di leadership e snodo di collaborazione tra Stato e Regioni

di Antonio Lampis

Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°6, Ottobre 2019

L’attenzione alle differenze e alla complessità allena la politica e l’amministrazione ad ottenere risultati di livello sensibilmente più alto rispetto a quelli che si ottengono con la banalizzazione dei maldestri tentativi di omogenizzare il trattamento di esigenze diverse.
Come ha affermato la Corte Costituzionale, le situazioni diverse vanno trattate in modo diversificato. Le norme sull’organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali hanno realizzato uno dei primi buoni esempi in Italia, un approccio sistematico al collegamento dei musei italiani, il Sistema Nazionale dei Musei, secondo modalità utili per ricordare che, quando si tratta di rapporti tra Regioni e Stato, non tutto quello che necessita di un coordinamento centrale deve per forza essere totalmente statale.
Il Sistema Museale Nazionale è stato creato dopo anni di studio con Icom, con le Regioni, con i Comuni e con le Università, è un patrimonio della Nazione che viene gestito a Roma, dal Ministero, tuttavia, come potrebbe avvenire anche per altri ambiti di competenza, è primariamente una modalità d’incontro e di definizione di passi strategici per la Nazione. Questa circostanza aiuterà anche le linee di sviluppo strategico sul tema del digitale, sul tema del racconto dei musei, che è quello che più attende un rinnovato impegno di chiunque, Comuni, Regioni, Stato e soprattutto, dei direttori di musei. I musei sono meravigliosi ma realizzare quelle “effettive esperienze di conoscenza” che sono richieste nella riforma dei musei è ancora in molti casi una chimera e si esce dai musei senza avere arricchito effettivamente il proprio patrimonio cognitivo. Si tratta di una grande sfida per i prossimi anni.
Gli avanzatissimi livelli minimi di qualità (LUQV), se è vero che danno grande rilievo agli aspetti di sicurezza, e di accessibilità, pongono anche un peso molto forte nel tema del raggiungimento delle effettive esperienze di conoscenza. Uscire da un museo con qualcosa in testa in più rispetto a quando si è entrati ed avere imparato qualcosa, è la risposta ad un bisogno fortissimo di tutte le generazioni, soprattutto di quelle giovani e giovanissime. Ricordo spesso che i consumi culturali sono statisticamente appannaggio, semplificando al massimo, dei figli dei laureati o, per media statistica, di una signora di cinquant’anni, quindi sapere lavorare oltre questi confini della statistica è un compito pubblico fondamentale. Il Sistema Nazionale dei Musei presenta nuovi livelli di qualità molto avanzati, frutto di un lavoro profondo ma anche di illuminata sintesi, il che li porta ad essere comprensibili anche dal non addetto ai lavori e gestibili sia dal nuovo direttore di museo che da quello di più lunga esperienza. Essi indicano un processo di crescita che è stato individuato come determinante per lo sviluppo economico del Paese.
Il Mibac sta per rendere noti i risultati dei lavori di due anni di studio sull’incrocio dei dati economici e di sviluppo dei musei Statali. Sono dati incredibili che indicano che, da soli, i cinquecento musei statali danno alla Nazione un indotto di circa l’1,6% del Pil. È stato calcolato che, una volta che saranno raggiunti i livelli di qualità così alti come quelli cui tendono le procedure di miglioramento previste, questi dati possono crescere ed assimilare la produzione di reddito per la Nazione dei soli musei statali a quello della produzione del settore agricolo. Mettere a sistema i cinquemila musei della Nazione, rivalutare tutto il patrimonio interno lontano dalle grandi città d’arte e dalle aree economicamente più sviluppate può divenire un moltiplicatore incredibile di benessere, un’occasione di sviluppo economico che questa Nazione non può perdere nonostante le attuali ridotte dotazioni organiche e le continue difficoltà gestionali tipiche della mano pubblica (entropia e burocrazia interna gravosissima e una resistenza all’innovazione altrettanto rilevante).
Grazie ad AGID, esiste una piattaforma informatica che consente di collegare tutti i cinquemila e più musei italiani, una piattaforma utile per la futura formazione, scambio di buone pratiche, conoscenza reciproca e altre mete indicate nel decreto di avvio del sistema leggibile nel sito della direzione generale musei del Mibact. Le Regioni partecipano a questo progetto con la presenza nella Commissione che sovraintende al Sistema, inviando i loro dati per gli accreditamenti e per i processi utili a mantenere collegati i musei in fase di raggiungimento dell’accreditamento. La buona notizia è che, ultimati i test informali sull’attuale stato di raggiungimento dei livelli di qualità (nei grandi musei statali, nei piccoli musei, in alcuni musei privati, in alcuni musei dei Comuni, in alcuni musei delle Regioni), è emerso che il livello di qualità in Italia non è così basso come si può pensare, anzi, in certi casi, è altissimo e quindi anche questo ci dà fiducia in un futuro di comune sviluppo, nella direzione di stretta collaborazione fra i componenti della Nazione quindi Comuni, Regioni, Stato, che solo insieme riusciranno a cogliere appieno questa occasione storica per lo “sviluppo culturale”. Spesso nei media si ricorda che l’articolo 9 parla della tutela, ma in realtà l’articolo 9 esprime come principio fondamentale lo “sviluppo della cultura” e pochissime istituzioni come i musei hanno saputo contribuire in questi anni allo sviluppo della cultura. In tre anni, 2014-2017, i musei statali sono cresciuti del 23%, quasi del 24, è esattamente il doppio della misura della crescita dei turisti, quindi significa che metà della gente che affolla oggi i musei sono italiani, gli incassi sono cresciuti del 40% e nessun settore economico o sociale al mondo cresce del 40% in 3 anni, non in Europa e non in altri Paesi del mondo e nel 2018 incredibilmente si è assistito ad un altro 5% di crescita. Oggi un settore economico o sociale che cresce del 5% è un settore molto incoraggiante, che può dare risposta alle esigenze di occupazione e di crescita culturale, su cui vale la pena lavorare e sacrificarsi e appunto, per quanto riguarda la parte politico amministrativa, investire risorse.
L’incredibile crescita di impatto sociale, culturale ed economico dei musei, che non ha eguali nel mondo a parte forse la Cina, è dovuta molto alla nuova figura dei direttori dei musei finalmente autonomi. Nell’estate 2015, con la nomina dei primi direttori dei musei autonomi, il sistema mediatico ha parlato incredibilmente più di direttori di musei, che di calciatori e dei loro flirt estivi. Le parole “direttore di museo” sono diventate un meme importante nella testa di tanti concittadini e i musei autonomi hanno raggiunto incassi fino a pochi anni fa inimmaginabili. Mai nella storia europea c’è stata una manifestazione di fiducia da parte delle persone così forte nei confronti dei musei.
La vicenda si collega alla necessità sempre più impellente di comprendere se esista e quale portata abbia “l’eccezione culturale”, cioè se la leadership nel settore culturale ha caratteri di assoluta peculiarità rispetto a quella che può essere esercitata per la gestione di aziende che operano in regime di economia di mercato. Parlare di leadership nella settore culturale significa, a mio avviso, ragionare innanzitutto sulla possibilità di costruire una consapevolezza diffusa dell’“eccezione culturale”, un temine nato per porre argini a quelle norme dell’Unione europea originariamente pensate per garantire la concorrenza delle imprese e troppo spesso applicate anche a settori che non dovrebbero essere regolati da meccanismi nati per l’economia di mercato. Lacci burocratici standardizzanti e procedure estenuanti se applicati al settore culturale, rendono quasi sempre impossibile la tempestiva promozione della creatività e dello sviluppo culturale dei cittadini e la gestione di molte delle istituzioni a ciò deputate. Per molto tempo si è rivendicato appunto l’esonero del settore culturale da alcune norme, procedure e standard gestionali pensate per l’economia di mercato e paralizzanti per la promozione della cultura. Solo recentemente un alto dirigente del Mef e l’ultima legge finanziaria hanno intuito la differenza che passa tra un museo e un ufficio pubblico che produce documenti, con riferimento ai meccanismi di risparmio di spesa pubblica. Chi lo intuì è oggi Ragioniere generale dello Stato.
Per inquadrare il tema dell’“eccezione culturale” è opportuno comprendere innanzitutto che la materia prima di cui è fatta l’attività culturale è direttamente o indirettamente legata al lavoro degli artisti. Molto spesso dimentichiamo che quello che chiamiamo patrimonio culturale proviene in gran parte frutto dall’opera di lavoratori del tutto particolari, gli artisti, che nella società, fin dai tempi delle prime civiltà egizie e forse ancora prima, hanno dovuto cercare ed ottenere protezione da entità sociali di altissimo livello siano esse state religiose, imperiali, statali o comunque dotate di grande influenza e adeguato potere economico.
Noi tutti siamo stati formati riguardo alla leadership, nell’accezione gestionale più contemporanea, sulla traduzione della manualistica che proveniva dagli Stati Uniti e dalla cultura anglosassone. Tuttavia i più attenti esperti di leadership, marketing e del management riconoscono che non si tratta certo di invenzioni delle aziende americane degli anni ‘50 o dei vari guru come Drucker e Kotter, ma di processi che hanno radici profondissime nell’ambito militare e che in buona parte sono state perfezionate a livelli raffinatissimi dalla Chiesa cattolica. La gestione manageriale più efficace non si fonda più, ormai da decenni, solo sulla rotellina di Deming che abbiamo trovato fino alla nausea nei testi americani (quella con scritto al suo interno plan-do-check-act), non si fonda più sull’idea che con quel procedere circolare si possa indifferentemente gestire qualunque cosa, dal negozio di scarpe alla Nazione. Gran parte dei testi di management, di marketing o sulla leadership propongono in premessa la richiesta di dimenticare che il proprio settore di attività abbia delle particolarità proponendo la tesi che tutto possa ricondursi a regole uniformi. Le regole uniformi funzionano per quanto può esser veicolato nei nuovi e vecchi canali di vendita, tuttavia la produzione artistica, la consapevolezza delle eredità culturali e la gestione delle istituzioni che se ne occupano mantengono saldamente numerose peculiarità. Le più vecchie concezioni di leadership si rifanno alle regole dei sistemi di comando militari, ma sono ormai superate e inapplicabili in un mondo iperconnesso in cui solo la comunicazione aperta e sincera crea empatia, unica via per sedimentare risultati stabili. Un leader moderno cerca di motivare i propri collaboratori con relazioni aperte, mettendosi in gioco personalmente; metterci la faccia è il tema centrale. Oggi un vero leader non è più quello che sta sopra, ma quello che parla dopo. A tale proposito un grande generale diceva: non utilizzate i metodi militari fuori dalle caserme altrimenti la gente si ricorderà che militare vuol dire anche il contrario di civile. L’artista è difficile da intruppare, l’artista non si fa comandare e arte e cultura risentono di questa circostanza. Bisognerebbe capire che nell’ambito culturale si è leader di una “missione impossibile”, come diceva Freud, quella della cura: far crescere la cultura significa anche essere garanti del pluralismo delle idee consapevoli, che esse sono una ricchezza anche e soprattutto quando sono disallineate, non rispondenti a sistemi gerarchizzati e manipolazioni di bassa psicologia (insomma 120 anni di storia del management sarebbero finalmente da buttare!). Sapersi affrancare da quel bagaglio retorico non è facile e spetta alla generazione più giovane farlo in modo stabile. Pochi sono i leader che hanno saputo distaccarsi da quell’“armamentario” e percorrere strade di innovazione, ma non è impossibile informarsi di quel Pantheon e trarne ispirazione. L’Italia, da Adriano Olivetti a Paolo Baratta ha grandi esempi da offrire al mondo. Tornando all’analisi intorno alla necessità di prendere atto dell’esistenza dell’“eccezione culturale” va ricordato che il settore è, almeno in Europa ed in molti paesi del mondo occidentale, in gran parte legato all’intervento pubblico. Chi opera nella produzione tradizionale ha come fattore di incertezza il mercato, chi opera nel pubblico deve sapere gestire un fattore di incertezza molto differente: la politica. Questa necessità di equilibrio in tensione, con antenne più estese e più alte è il fondamento e la giustificazione del poter parlare di “eccezione culturale”, cioè la consapevolezza che nel settore del management della cultura le regole di equilibrio sono più complesse. Per molto tempo in Italia ed in Europa l’ambito culturale è stato sottostimato e la stessa direttiva che ha avviato l’anno europeo del patrimonio culturale, una direttiva di maggio 2017, fotografava una sottostima del patrimonio culturale e auspicava una maggiore consapevolezza del ruolo sociale ed economico della cultura, della sua capacità di produrre reddito e sviluppo sociale. In qualunque comune italiano, negli anni ‘80 e ‘90, l’assessorato alla cultura era l’ultima scelta, era considerato dal politico di turno quasi una punizione. Io stesso ho sentito con le mie orecchie esponenti di spicco di partiti politici dire: che ci importa della cultura, pappiamoci la sanità! L’Italia, malgrado ciò, è passata negli anni ‘90 da essere fanalino di coda delle politiche culturali e delle analisi economiche ad esse collegate a leader europeo e in molti ambiti anche mondiale, grazie soprattutto all’Associazione per l’Economia della cultura e alla sua quasi omonima rivista pubblicata da Il Mulino. L’associazione ha riunito a sé i grandi protagonisti di un cambiamento epocale nella riflessione sulla sull’impatto culturale, sulle politiche culturali e sui processi di leadership nei governi pubblici e nelle organizzazione private. A forza di ragionare sugli impatti economici della cultura ad un livello molto avanzato è cresciuta in Italia la consapevolezza del ruolo delle attività culturali nei processi economici e quindi da ambito poco interessante è diventata un ambito conteso: il Ministro della cultura ha cominciato a sedere nel CIPE, il comitato di programmazione economica, e alcuni ministri hanno scelto la delega alla cultura piuttosto che la delega ad altri dicasteri prima meglio considerati, cosa che sarebbe stata inconcepibile in passato: in sostanza ancora oggi sui temi culturali c’è un’attenzione enorme da parte di più ampie fasce sociali ed una eco mediatica che prima non esisteva. La vera svolta si è verificata quando il Parlamento ha dichiarato con legge che i musei e i luoghi della cultura sono un servizio pubblico essenziale. Ho scritto al riguardo di fenomeno di welfarizzazione della cultura, cioè l’obbiettivo di rendere le attività culturali al pari del welfare, far sì, in sostanza, che quando in una Regione o in un Comune si fa il bilancio e si pensa ai tagli ci sia un atteggiamento diverso da quello di tanta parte degli anni ‘80 e ’90, quando ci si accordava per esentarne la sanità e la spesa sociale e le prime vittime dei tagli orizzontali erano le spese cosiddette “non irrinunciabili” cultura in primis. Negli ultimi cinque anni in alcune, ancora troppo poche, Regioni italiane e in parte anche nella Nazione ad un certo punto la cultura valeva come la scuola, come la sanità e come i servizi sociali. E’ ora fondamentale verificare tutte le opportunità di reddito del settore culturale compatibili con la tutela e portare la spesa per lo sviluppo della cultura, quello previsto dall’articolo 9 della Costituzione italiana, al livello dell’importanza di quanto è stato considerato welfare, quindi al livello di quella parte del bilancio che si ritiene intoccabile, per rendere giustizia ai grandi italiani che hanno esercitato una forte leadership culturale ed hanno quindi saputo riportare il tema della cultura all’attenzione del percorso quotidiano dei cittadini e attraverso un nuovo sguardo dei media e quindi in una posizione più elevata nella gerarchia dei valori della Nazione.

Antonio Lampis è funzionario pubblico dal 1983. E’ stato per dal 1997 al 2017 dirigente del settore culturale della provincia autonoma di Bolzano. Contemporaneamente docente in diverse università e master sui tempi del marketing culturale, politiche culturali avanzate, organizzazione e management pubblico. È stato relatore in convegni nazionali e internazionali, autore di numerose pubblicazioni. E’ stato selezionato per le terne del Museo di Capodimonte e del Museo nazionale romano, dal primo settembre 2017 è alla guida della Direzione generale Musei del Mibact.