La complessità dell'inclusione

di Stefano Boccalini

Pubblicato in ÆS ARTS+ECONOMICS N°8 giugno 2020

Ho aderito con piacere all’invito di scrivere un contributo sul tema dell’arte come inclusione sociale, ma paradossalmente mi sono trovato a scriverne in un momento in cui i rapporti sociali sono stati praticamente azzerati dall’isolamento in cui tutti ci troviamo a causa di questa pandemia da Coronavirus, il Covid 19, che ci sta costringendo a vivere barricati nelle nostre case e ci fa percepire l’altro come un pericolo da evitare, come un corpo estraneo che può diventare un pericolo per la nostra incolumità.

Questa condizione forzata che ci ha travolto all’improvviso  e che ha modificato in modo significativo le nostre esistenze mettendo in crisi molte delle nostre certezze, sta in qualche modo evidenziando le contraddizioni attraverso le quali si è consumato fino ad ora il nostro rapporto con la società, ci sta facendo vedere, se vogliamo e se siamo ancora in grado di vedere, i punti critici di un modello di sviluppo che si sta allontanando sempre più dalla centralità della persona per modellarsi all’andamento dell’ economia del profitto.

In questo momento dove tutto sembra sospeso e dove ognuno di noi cerca di ricostruire intorno a se delle certezze per resistere ad una condizione di vita che ci ha colto impreparati, ci accorgiamo di quanto siano importanti le relazioni, di quanto sia importante il tessuto sociale che ognuno di noi è riuscito a costruire per difendersi da una solitudine che è insita in una società che fatica sempre più a parlare di inclusione, e se lo fa, spesso lo fa passando attraverso forme di retorica.

Mi sembrava doveroso inquadrare brevemente una situazione che ci sta spingendo a porci delle domande che possono essere utili anche per guardare al contesto artistico contemporaneo con occhi rinnovati.

Inizierei col mettere in discussione il termine inclusione, e lo faccio partendo un’esperienza ormai più che trentennale, quella del gruppo Wurmkos con cui spesso mi sono trovato a collaborare, un percorso artistico costruito sulla volontà di sottrarre ogni tipo di distanza tra quella che consideriamo “normalità” e quella che invece identifichiamo come “diversità”.

Per Wurmkos il termine “inclusione” è un coltello a doppio taglio, se da una parte spinge a voler mettere insieme condizioni di vita diverse, dall’altra tende a evidenziare proprio quella diversità che si vuole includere, quello che appare più giusto utilizzare, allora, è il termine “coabitazione”, cioè vivere lo stesso spazio con diritti e doveri reciproci nella differenza.

Wurmkos è un laboratorio di arti visive che mette in relazione arte e disagio psichico, nato nel 1987 dall’incontro tra l’artista Pasquale Campanella e alcune persone con disagio psichico, utenti della Cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione di Sesto San Giovanni, è un’esperienza che ha saputo resistere e mantenersi attiva in tutti questi anni e che gode ancora di ottima salute, tanto che nel 2011 è diventata fondazione.

Il laboratorio è sempre stato un luogo aperto dove artisti, curatori, studenti, persone con disagio psichico e gente comune, che negli anni si sono alternate, si confrontano e collaborano alla costruzione di un lavoro collettivo ma senza sottrarre spazio alle individualità, ognuno porta la sua esperienza che si trasforma e si completa attraverso gli altri.

L’idea che Pasquale Campanella mette in campo non lascia spazio a fraintendimenti, fin dall’inizio il lavoro del gruppo ha preso le distanze da quell’ambito ben definito dell’outsider-art o dell’art-brut, che si muove all’interno di un circuito autonomo e si sviluppa attraverso una rete di soggetti: gallerie, critici, collezionisti, ecc…, differenti da quelli che animano il circuito dell’arte contemporanea.

Un ambito chiuso, un ghetto dove la “malattia” viene relegata, una realtà che si sviluppa in maniera autonoma rispetto al sistema dell’arte contemporanea, con cui non ha possibilità di confronto e di scambio, elementi fondamentali nei processi di appartenenza.

Wurmkos non ha mai accettato neanche l’idea di arte come terapia, perché quest’idea porta con sé qualcosa di inadeguato proprio nelle sue premesse, trasformando “l’altro” in un individuo da salvare e non un individuo con cui confrontarsi e costruire nuove visioni.

Affrontare le criticità sociali con un atteggiamento “Salvifico”, oltre ad essere inutile ci toglie la possibilità di crescere come individui, ma soprattutto ci toglie la possibilità di costruire nuove identità, necessarie se vogliamo guardare al contesto sociale con un rinnovato e risignificato senso della collettività.

Ma vorrei affrontare il tema dell’inclusione anche a partire da premesse diverse da quelle che muovono il lavoro di Wurmkos, premesse che mettono in campo un’idea di inclusione che passa attraverso le diversità dei territori e le possibilità che essi offrono ai suoi abitanti, ma anche attraverso quell’uguaglianza sociale di cui abbiamo un estremo bisogno.

Sono convinto che sia sempre più necessario attivare uno scambio tra le aree metropolitane e quelle che chiamiamo aree interne, scambio che deve necessariamente passare attraverso un doppio binario e non può essere a senso unico.

C’è una tendenza da parte di chi abita nei centri urbani, che con questa pandemia ha avuto una forte accelerazione, di cercare spazi abitativi in luoghi non affollati e a contatto con la natura, dove poter lavorare, anche grazie alle nuove possibilità che il mondo del lavoro ci sta offrendo, e di conseguenza di sostare per periodi più lunghi, nei luoghi che normalmente sono frequentati per le vacanze.

Questa situazione però crea uno squilibrio e le mete di destinazione, i borghi antichi, i piccoli paesi di montagna, ecc…, diventano luoghi dove consumare “bellezza”, ma difficilmente vengono considerate le esigenze di chi li abita.

È qui che bisogna agire, spostando lo sguardo e cercando di capire quali possono essere le strategie da mettere in campo per far si che questi luoghi non siano “attrattivi” solamente nei momenti del bisogno.

Non possiamo e non dobbiamo pensarli come territori da consumare, ma dobbiamo capire come possiamo aiutarli a costruirsi un futuro che non sia fatto solo di emigrazione.

Se da una parte questo modo di agire potrebbe favorire uno sviluppo sostenibile dei luoghi che ne hanno bisogno, dall’atra aiuta i nuovi abitanti ad integrarsi e ad essere parte attiva in un processo di sviluppo che può cambiare il nostro modo di abitare.

Grazie alle nuove tecnologie e alle possibilità che ci offrono, ma anche grazie alle nuove consapevolezze che ci fanno guardare ai territori delle aree interne con rinnovata prospettiva, abbiamo la possibilità di ripopolare parte del nostro territorio nazionale, ma dobbiamo farlo con una visione a lungo termine che ci permetta di dare continuità ad un percorso che è appena iniziato.

L’arte in tutto questo può giocare un ruolo importante a partire dalla capacità che ha, quando vuole, di attivare sui territori dove opera pratiche che incidono all’interno del contesto sociale, diventando possibili esempi di sviluppo, “visioni” capaci di innescare processi in grado di autoalimentarsi e di accorciare le distanze tra i vari territori e tra gli abitanti che ci vivono.

Da alcuni anni ho concentrato la mia attenzione verso quei luoghi che vengono considerati periferici, e proprio in questi luoghi sto mettendo a frutto un percorso artistico che ha fatto del rapporto con l’altro il “luogo” della ricerca, e non è un caso che ci troviamo lontano dai grandi centri abitati, perché qui sono riuscito a ritrovare quei “semi”, che arrivano dal passato ma che possono essere ancora utili, specialmente se “piantati” in altre realtà territoriali, perché possono innescare nuove strategie di sviluppo che mettono al centro  l’uomo con le sue relazioni, e non l’economia del profitto che genera esclusione.

La Valle Camonica è diventata un punto di riferimento per il mio lavoro, qui negli anni ho collaborato con varie comunità e con una serie di artigiani, e qui sto costruendo un progetto che sfocerà nell’apertura di un centro per l’arte e l’artigianato della montagna, di cui mi è stata affidata la direzione artistica, e che sarà inaugurato il prossimo anno nel comune di Monno.

Un centro che diventerà luogo di scambio tra saperi intellettuali e saperi manuali, dove le pratiche artigianali diventano il possibile “luogo” di incontro tra artisti (e più in generale autori) e artigiani che hanno costruito il legame con la propria terra attraverso il loro fare.

Ma non sarà solo questo, il centro diventerà anche un luogo dove la comunità potrà riconoscersi e dove sarà possibile riportare alla luce tutti quei temi legati al passato, utili alla costruzione del futuro, che sono momentaneamente messi in disparte, ma che in questo luogo possono trovare le condizioni per rigenerarsi e assumere nuove forme.

Da molti anni il mio lavoro si struttura a partire dalla parola per ridare peso specifico e valore collettivo al linguaggio, che diventa il “luogo” dove la diversità assume un ruolo fondamentale e diventa il mezzo con cui contrapporre al valore economico il valore “del comune”, come momento di inclusione.

Viviamo in un’epoca in cui le parole sono diventate un vero e proprio strumento di produzione ed hanno assunto una dimensione sempre più importante all’interno del contesto sociale, e proprio per questo sono diventate protagoniste del mio lavoro.

Attraverso la fisicità con cui le metto in “scena” risultano dei veri e propri dispositivi di comunicazione in continuo dialogo con i “luoghi” che le accolgono, e diventano momenti di riflessione su tematiche che riguardano tutti, a partire da quelli che consideriamo “i beni del comune”.

Quello che mi interessa è mettere in campo strategie di lavoro capaci di innescare processi di inclusione e di sostenibilità, strategie in grado di spostare lo sguardo da quell’economia dominante che vede il contesto sociale solamente come il luogo da cui trarre profitto, e questo non può che generare esclusione.

Attraverso il linguaggio, le nuove economie nate dalle innovazioni tecnologiche, producono grandi ricchezze che sempre più si concentrano nelle mani di pochi, il risultato sono quelle disuguaglianze sociali che caratterizzano le nostre società, e che riducono sensibilmente la possibilità di costruire una visione collettiva in grado di proporre modelli di sviluppo inclusivi.

L’utilizzo della parola che ha caratterizzato il mio lavoro in questi ultimi dieci anni ha caratterizzato anche il lavoro che ho prodotto in Valle Camonica che si è strutturato anche attraverso uno stretto rapporto con alcuni artigiani locali, dove la collaborazione ha dato vita ad una serie di lavori che esistono in virtù di questa relazione, ma che assumono un ruolo che va al di là dei manufatti creati.

L’obbiettivo non è stato, e non è solo quello di realizzare delle opere, ma è anche quello di stimolare un percorso di trasformazione di quelle pratiche artigianali che oggi assumono una forma quasi domestica e che inevitabilmente rischiano di scomparire.

Forme artigianali che storicamente ricoprivano una funzione di primaria importanza nel tessuto sociale e culturale della Valle, mentre oggi faticano a resistere ai cambiamenti imposti dalla modernità e sono relegate ai margini, e pochi ne conoscono ancora le antiche tecniche.

Tecniche che continuano a sopravvivere ma che faticano a creare nuove economie, nuove risorse, che potrebbero dare la possibilità ad alcuni giovani di costruirsi un futuro all’interno delle proprie comunità e non doverle abbandonare per cercare lavoro altrove.

Questa collaborazione mi ha spinto a sperimentare tecniche con cui non mi ero mai confrontato e ha portato alla realizzazione di molte opere che ho presentato in una mostra personale allo Studio Dabbeni di Lugano, tra cui una serie di pezzotti (tappeti) realizzati a mano con telai dell’800, alcuni lavori realizzati con la tecnica del legno intrecciato (tecnica con cui si realizzano le ceste), alcuni ricami che sono diventati veri e propri quadri realizzati con la tecnica del punto e intaglio, e così via.

Ognuna di queste opere presenta una parola che fa parte di un vocabolario che negli anni sto lentamente costruendo, vocabolario che nell’insieme vuole restituire il senso di un percorso artistico che ha messo, e mette al centro, un’idea collettiva di sviluppo.

Ma la collaborazione con gli artigiani della Valle Camonica ha prodotto anche opere che sono rimaste sul territorio, e tra queste c’è anche “PubblicaPrivata” un’opera permanente nata all’interno di Aperto_ art on the border, un progetto di arte pubblica sostenuto dalla Comunità Montana che da anni è presente in Valle.

La richiesta che mi è stata fatta è stata quella di pensare e progettare un’opera a partire da una riflessione sul tema dell’acqua, grazie all’organizzazione ho potuto soggiornare in Valle per tre settimane, tempo che mi ha permesso di osservare con attenzione il territorio Camuno.

Mi ha permesso di osservare le montagne e il fiume Oglio che percorre la valle da Ponte di Legno fino al lago d’Iseo, seguendo il fiume ci si rende immediatamente conto quanto il fluire delle sue acque sia continuamente interrotto, molti sono gli sbarramenti costruiti per permettere alle centrali idroelettriche di produrre energia, lasciando il letto del fiume con una quantità d’acqua che in certi periodi dell’anno non è sufficiente a soddisfare i bisogni degli abitanti della valle.

Ma mi ha permesso anche di ascoltare i suoi abitanti, di ascoltare le associazioni che sono nate e si sono consorziate per tutelare una risorsa che dovrebbe essere considerata un bene comune.

Il risultato è un’opera collocata nel letto del fiume Oglio nel tratto che attraversa il territorio del comune di Temù, le dimensioni dell’opera sono state pensate appositamente per adattarsi ad uno sbalzo, costruito dall’uomo all’interno del fiume, in modo che l’acqua potesse scorrere senza impedimenti ma allo stesso tempo potesse entrare in contatto fisico con l’opera.

La scelta dei materiali è stata fondamentale per la costruzione di questo lavoro, avevo bisogno di due materiali il più possibile uguali dal punto di vista estetico ma con caratteristiche diverse.

La scelta è ricaduta sul ferro e sull’acciaio, materiali che appena lucidati appaiono simili, ma che a contatto con l’acqua reagiscono in modo differente: il ferro arrugginisce e col passare del tempo si deteriora, l’acciaio non viene corroso dall’acqua e quindi mantiene le sue caratteristiche originali.

Con l’acciaio ho realizzato la parola “pubblica” e con il ferro la parola “privata”, chiaramente il riferimento è all’acqua, acqua che col passare del tempo modificherà l’opera e metterà in evidenza quello che è il mio pensiero su una questione così delicata.

“Una parola su Monno” è un’altra opera che è rimasta sul territorio, un lavoro che si è strutturato su più livelli, che parla di inclusione ma anche di responsabilità, dove il rapporto con “l’altro” e il rapporto con il territorio si fondono e generano consapevolezza.

Attraverso una cartolina che mostra una veduta del paese, appositamente realizzata, ho chiesto agli abitanti di Monno di pensare e scrivere direttamente sulla cartolina una parola che fosse in grado di esprimere il rapporto che ognuno ha con il proprio paese.

Quando tutte le cartoline mi sono state restituite ho scelto, insieme ad alcuni abitanti del paese, le parole più significative e più rappresentative della comunità, successivamente queste parole sono state intagliate nel legno dagli utenti della Cooperativa sociale il Cardo di Edolo che lavora in quel territorio, persone con disagio psichico.

I manufatti hanno trovato spazio in modo permanente, nelle vie del piccolo borgo e sono diventati parte integrante del paesaggio di Monno.

La parola è così diventata un “luogo” dove il vissuto viene significato e condiviso, ma anche un luogo di incontro dove la diversità crea quel senso del “comune” come valore primario.

Ma non c’è stata solo la Valle Camonica, e non ci sono solo lavori nati dal rapporto con gli artigiani, in questi anni ho prodotto altre opere che parlano di inclusione, come ad esempio tutto il lavoro sulle parole intraducibili.

Parole che appartengono a lingue diverse, che vengono definite intraducibili perché non hanno corrispettivi in altre lingue ma esprimono dei concetti, parole evocative che riassumono dei pensieri complessi.

Quelle che seleziono, e che entrano a far parte del mio vocabolario, sono parole che parlano del rapporto tra le persone e del rapporto tra l’uomo e il pianeta che lo ospita, e sono l’esempio della ricchezza che la diversità linguistica ci offre.

Lingue spesso minoritarie che proprio per questo vanno difese e protette, perché sono parte di quella complessità di cui abbiamo bisogno per continuare a progettare il futuro al di fuori di quella semplificazione, di cui la contemporaneità è intrisa e che sta appiattendo le nostre esistenze.

La complessità dell’inclusione allora sta nella complessità del nostro sguardo, sta nella nostra capacità di mantenere vive tutte quelle situazioni che possiamo riassumere bene con una parola “biodiversità”.

E proprio mettendo in campo questa parola vorrei chiudere queste mie riflessioni, perché mi sembra appropriata per rispondere alle esigenze di una società che fatica a riconoscere “nell’altro” un fattore positivo, e fatica a riconoscere la ricchezza che può offrirci la complessità di cui l’arte, e la cultura in generale, hanno bisogno per potersi alimentare.

Stefano Boccalini è artista, docente di Arte Pubblica alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano, direttore artistico di Ca’Mon (centro per l’arte e l’artigianato della montagna) di Monno e consulente scientifico dell’Archivio Gianni Colombo.

Sue opere sono state esposte in importanti istituzioni italiane e internazionali tra cui ricordiamo:

Museo MuCEM Marsiglia; Museo Pecci, Prato; Museo Marino Marini, Firenze; Palazzo delle Esposizioni, Roma; Galerie im Kunsthaus Essen; Museo di Villa Croce, Genova; Museo Cantonale d’Arte, Lugano; Palazzo Strozzi, Firenze; Musée de Carouge, Genève; Palazzo delle Stelline, Milano; Museo de Arte Moderno de Buenos Aires; Biennale Architettura Venezia, Sesc Belenzinho, Sao Paulo, Mamco, Genève; Palazzo della Triennale, Milano; HangarBicocca, Milano.

Sue opere fanno parte della collezione del museo MuCEM di Marsiglia e del Museo del Novecento di Milano.

Fin dalle prime installazioni il rapporto con lo spazio è l’elemento che caratterizza il suo lavoro e se all’inizio, questo rapporto era di tipo fisico – e si sviluppava nelle relazioni con l’architettura e la natura – successivamente inizia a trasformarsi attraverso un insieme più complesso di fattori, sociali e antropologici.

La natura capitalistica dei processi economici attuali è al centro di molti suoi progetti: la svolta linguistica dell’economia e le sue ricadute simboliche e sociali nella pervasività finanziaria, svelano dinamiche su cui il suo lavoro riflette criticamente.

Da quando la parola è diventata protagonista del suo lavoro, l’opera si pone nei contesti di riferimento come momento di riflessione collettiva su temi che riguardano tutti, e in particolare su quelli che consideriamo i beni del “comune”.