La sostenibilità economica passa dalla costruzione di un senso comune?

di Anna Consolati

È da quando 20 anni fa studiavo per diventare “manager culturale” che sento dire che il mondo della cultura deve ragionare maggiormente come le imprese, che lo storytelling è fondamentale, che bisogna guardare al modello anglosassone, che lassù vendono pure Stone Age e che il fundraising e l’autofinanziamento sono fondamentali e lo diventeranno sempre di più nel tempo.

Nel tempo abbiamo in tanti bussato alle porte dell’Europa e sono diventata avvezza all’euro-progettazione. Delle relazioni e delle coprogettazioni a livello europeo rimarco qui il ruolo fondamentale per i professionisti del settore non solo di trovare nuove economie ma, soprattutto, di trovare legami che vanno oltre la competizione e la salvaguardia del proprio giardinetto di strategie e competenze, ancora da noi tremendamente praticato. Occasioni, quindi, che formino interi staff e aprano a modelli organizzativi diversi da quelli a cui spesso siamo abituati in Italia, e che ci permettano di alimentare la visione strategica e la sostenibilità futura delle realtà in cui operiamo.

Ma di questi principi, di questi nuovi passaggi verso un’impresa culturale che sia capace di abitare e sopravvivere magari con nuove germinazioni nel contesto contemporaneo, quanto è possibile e praticabile oggi in Italia? Quante le diverse velocità a cui viaggiamo e progettiamo?

Come possiamo garantire la sostenibilità economica di un ente culturale mentre si promuovono i valori fondamentali di equità, inclusione e rispetto in primis per il personale e gli artisti coinvolti? Come abitare i propri principi?

Questo è il mio mantra attuale.

L’equilibrismo è una sfida giornaliera, in un mondo culturale che si muove ancora oggi sull’arte del “bandese” e dove ci troviamo sempre schiacciati dalla continua chiamata a partecipare a progetti che richiedono la compilazione di form on-line, parti descrittive, budget, interminabili sessioni di caricamento di documentazione amministrativa. Il progetto avrà successo? Il cofinanziamento sarà confermato? La quietanza di pagamento dovrà essere copia dell’estratto conto, o basta la contabile on line?

Domande base, dirette, ma la sostenibilità economica per una micro-impresa culturale è in primis una lotta con l’ancora lontanissima armonizzazione delle procedure di partecipazione ai bandi e della loro rendicontazione, tra soggetti che concorrono cumulativamente a sostenere il nostro terzo settore culturale e tutti quelli che sono rimasti al di là del guado con l’ultima riforma. Perché dalle fondazioni bancarie ai comuni, dalle regioni ai ministeri, senza dimenticare l’Unione Europea, tutti parlano lingue diverse e viaggiano ancora una volta non solo su binari diversi, ma anche a velocità diverse, passando dalle carovane di cammelli ai treni giapponesi ad alta velocità. Perché se l’UE sul settennio 2021- 2027 ha ridimensionato la parte di rendicontazione progettuale amministrativa, accogliendo una richiesta del settore, viceversa le amministrazioni locali e le stesse fondazioni bancarie ci chiedono sempre più dati e la parte amministrativa nuovamente si mangia una fetta cospicua del nostro tempo.

La mia sensazione è spesso di trovarmi nuovamente proprio lì nel mezzo, e che anche gli interlocutori che ci formano e aggiornano spesso si dimentichino che il grosso del fare cultura in Italia passa ancora da micro-imprese. Si parla, ad esempio, di digitale e intelligenza artificiale, e i bandi PNNR TOCC li abbiamo almeno scaricati tutti sul nostro desktop, ma la maggior parte delle micro-imprese culturali italiane non ha nemmeno il sito in doppia lingua.

Siamo staff formati nel campo e sul campo e il multitasking è la colonna sonora delle nostre giornate, ma il numero di cappelli che possiamo indossare si sta esaurendo, mentre la complessità dello scenario continua ad aumentare e chi ci finanzia è sempre più lontano dal nostro mondo e dalle regole del nostro mercato.

Banalità? Utopie?

Come cercare delle modalità che richiudano questa ennesima divaricazione? È necessario ed essenziale promuovere una migliore comprensione delle esigenze e delle sfide del settore. Qui la lista delle possibilità è lunga e passa da programmi di formazione, all’analisi di casi di studio alla raccolta dei dati, passa soprattutto dall’avere il coraggio di mettere tutta la filiera attorno al tavolo.

Se il ruolo vitale che la cultura svolge nella società e nell’economia sembra essere un concetto tornato in auge negli ultimi anni, e si moltiplicano gli studi di impatto che dimostrano i benefici economici e sociali delle attività culturali, a segnale che finalmente anche il mondo della cultura ha capito che per sopravvivere sia necessario uscire dalla propria bolla e imparare altri linguaggi e metriche, manca ancora un fondamentale lavoro quotidiano che impatti sul senso comune.

Il bilancio sociale è uno strumento che ci è tornato molto utile negli ultimi anni, in primis ci ha spinto a sistematizzare la raccolta di tutti i dati, ci ha fatto guardare allo specchio con spesso positivissime ricadute nell’empowerment dello staff, ma ci ha permesso anche di esporre in maniera più chiara ai nostri portatori di interesse quelli che sono i dati e gli impatti. E non solo parlare ai nostri portatori di interesse. Mia madre ha capito che lavoro faccio da quindici anni quando le ho dato in mano l’ultimo bilancio della nostra associazione. La trasparenza è vitale, parlare più lingue pure.

Cultura come diritto universale, linguaggio del corpo, innovazione, ricerca artistica, accessibilità, sostenibilità, riconoscimento e apertura nei confronti delle differenze, impegno quotidiano, educazione, network. Queste sono state le parole chiave che hanno ridefinito l’identità di Oriente Occidente negli ultimi anni e che stiamo cercando di rendere concrete, rinnovando il nostro patto culturale con la comunità locale, nazionale e internazionale. Raccogliere i risultati, le vittorie, le false partenze e gli errori in un rendiconto complessivo che racconta un anno diventa, quindi, anche per la governance uno strumento fondamentale per leggersi, per stabilire gli obiettivi a medio e lungo termine, muovendosi tra sostenibilità economica e sociale.

Considerarsi impresa culturale oggi significa guardare, però, anche ai modelli più avanzati dei mondi altri, bucare la bolla, o almeno farsi ospitare almeno per un po’ di là. “Rubare” o sarebbe meglio poter dire “condividere” i modelli di business che meglio si adattano anche alle caratteristiche del terzo settore andando in altri territori. Mi è successo poco tempo fa, grazie ad un’iniziativa che proponeva dei pitch seguiti da 12 settimane di lavoro insieme tra terzo settore e start up: ci sono serviti minimo tre incontri per trovare una lingua comune, o forse oserei direi pure delle parole in comune, ma da lì il lavoro che abbiamo condiviso ha avuto senso e valore proprio perché ci ha obbligato a ragionare in un terreno di frontiera in cui ognuno dalla propria bolla portava e costruiva del senso comune. Allora è forse ora di dirlo che dobbiamo fare lobby? Che dobbiamo collaborare e spingere dal basso le organizzazioni culturali e i gruppi di interesse per promuovere l’importanza della cultura nei confronti dei decisori politici? È ora di essere noi stessi politici? Di imparare ad alzare la voce, di imparare a crearlo veramente il futuro.

Organizzare incontri, briefing e dibattiti per condividere, però farlo veramente, qui lo ripeto, prospettive e argomenti, e andare oltre. Bisogna creare road map. Creare alleanze coinvolgendo funzionari, imprenditrici e politici in collaborazioni dirette con gli enti culturali. Bisogna che vedano, bisogna che pratichino, bisogna portarli e portarle con noi. La cultura è di tutti e tutte, la cultura deve ritrovare la società, al pari della politica.

Posso elencare ancora una volta tutte le vie che troviamo giornalmente per sopravvivere dal punto di vista economico, la gestione che metto in pratica per bilanciare i contributi pubblici con l’autofinanziamento, le leve del fundraising, l’art bonus, il 5x1000, ma su questo abbiamo manuali, grandi esperte e pensatori. Ma per risaldare il patto sociale abbiamo solo le persone, le persone che fanno le istituzioni, le persone che dobbiamo mettere intorno al tavolo, e che non devono essere oltre la nostra bolla, oltre la nostra comfort zone e con loro costruire la nostra sostenibilità futura: economica, sociale, culturale.

Anna Consolati lavora presso il centro culturale Oriente Occidente dal 2007, guidando progetti internazionali con focus su arti performative e accessibilità dal 2014 in poi. Dal 2021 Consolati è direttore generale coordinando la pianificazione strategica e i rapporti con gli stakeholder. Ha costruito e coordinato reti ed eventi strutturati tra enti pubblici finanziatori, istituzioni culturali e artisti con disabilità, spingendo per l’equità e con la consapevolezza che la diversità è un motore di creatività e innovazione – come manifestato in “Presenti Accessibili” a Milano nell'aprile 2022.