L’esportazione illecita di opere d'arte
di Francesco Emanuele Salamone
Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°7, Gennaio 2020
La norma di riferimento (l’art. 174 d.lgv. 42/04) sanziona, al primo comma, sostanzialmente colui il quale esporti fuori dai confini nazionali cose di interesse culturale senza l’attestato di libera circolazione o la licenza di esportazione. L’art. 174 rappresenta pertanto la conseguenza, sotto il profilo penalistico, della violazione degli articoli 68 e 74 del d.lgv. 42/04, che regolano i procedimenti attraverso i quali è possibile far uscire dal territorio della Repubblica beni di interesse culturale. Appare quindi fondamentale ricostruire, per quanto qui d’interesse, le linee guida della normativa in materia di esportazione dei beni culturali, la cui violazione – come detto – integra la fattispecie punita dall’art. 174 d.lgv. 42/04. In sintesi, anche a seguito della recente riforma in tema di circolazione internazionale dei beni culturali (l. n. 124/2017), possiamo convenzionalmente distinguere tre «categorie» di beni culturali: quelli per i quali l’esportazione definitiva è vietata; quelli per i quali l’esportazione definitiva è subordinata al rilascio dell’attestato di libera circolazione o della licenza di spedizione; quelli per i quali l’uscita è libera o subordinata ad una mera autocertificazione.
Ai sensi dell’art. 65, I° e II° comma, appartengono alla «prima categoria», ovvero a quella dei beni per i quali è tassativamente vietata l’uscita definitiva (ma non anche quella temporanea) dal territorio della Repubblica, i beni culturali mobili indicati nell’articolo 10, commi I°, II° e III°, nonché (a) le cose mobili appartenenti ai soggetti indicati all’articolo 10, I°, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settantanni fino a quando non sia stata effettuata la verifica prevista dall’articolo 12; ed (b) i beni, a chiunque appartenenti, che rientrino nelle categorie indicate all’articolo 10, comma III°, e che il Ministero, sentito il competente organo consultivo, abbia preventivamente individuato e, per periodi temporali definiti, abbia escluso dall’uscita, perché dannosa per il patrimonio culturale in relazione alle caratteristiche oggettive, alla provenienza o all’appartenenza dei beni medesimi. L’esportazione di tali beni integra certamente, quantomeno sotto il profilo dell’elemento oggettivo del reato, il delitto in esame. Quanto, invece, ai beni della «seconda categoria», l’ art. 68 d.lgv. 42/04 prevede che «chi intende far uscire in via definitiva dal territorio della Repubblica le cose indicate nell’articolo 65, III com., deve farne denuncia e presentarle al competente ufficio di esportazione». L’Ufficio esportazione presso cui è presentata la domanda, al termine di un’articolata istruttoria, potrà o rilasciare l’attestato di libera circolazione o procedere all’acquisto coattivo del bene o negare l’esportazione con conseguente avvio del procedimento di «notifica». L’uscita dal territorio nazionale di un bene di interesse culturale, per il quale si sarebbe dovuto richiedere (ed ottenere) un titolo per l’esportazione, integra, ove si esporti il bene in assenza di tale titolo, il reato di esportazione illecita, sanzionabile ai sensi dell’art. 174. Inoltre, tenuto conto della natura di reato di pericolo, ai fini dell’integrazione del reato, è sufficiente che il bene di interesse culturale sia stato fatto uscire dal territorio nazionale senza la prescritta autorizzazione, non rilevando in alcun modo che il titolo autorizzatorio (l’attestato ex art. 68 o la licenza ex art. 74) potessero essere rilasciati ove richiesti (Cass. Pen., 21.1.2000, n. 2056). Alla terza «categoria», ovvero a quella dei beni per i quali non è richiesto alcun titolo autorizzativo per l’uscita dal territorio nazionale, appartengono, invece, i beni muniti di interesse culturale, che siano opera di autore vivente o che, nel caso di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni ed il cui valore sia inferiore ad euro 13.500 (fatta eccezione per le cose di cui all’allegato A, let. B, n. 1).
Più precisamente, allorquando le cose da trasferire all’estero rientrino nelle ipotesi per le quali non sia prevista l’autorizzazione, l’interessato – ai sensi del novum normativo introdotto dalla l. n. 124/2017 - ha comunque l’onere di comprovare, mediante dichiarazione ex D.P.R. 445/2000 da effettuarsi secondo le procedure e con le modalità stabilite con decreto ministeriale, che il bene rientri nella categoria dei beni esportabili senza autorizzazione all’uscita dal territorio nazionale. Resta fermo lo «speciale» potere di avvio del procedimento di «notifica» del bene da parte dell’Ufficio esportazione nei limiti indicati dal nuovo comma IV° bis dell’art. 68 d.lgv. 42/04. All’indomani dell’entrata in vigore della nuova normativa in tema di esportazione di beni di interesse culturale di valore inferiore a 13.500 euro (attualmente, «sospesa» ma non abrogata dal D.M. 305/2018), vi è da chiedersi se incorra o meno nella violazione dell’art. 174 (commettendo il reato di esportazione illecita di opera d’arte) il soggetto che esporti all’estero un bene, munito di interesse culturale, di valore inferiore alla predetta «soglia di valore», senza aver presentato la prescritta «autocertificazione». A nostro avviso, la risposta al quesito dovrebbe essere negativa.
Alla medesima conclusione sopra esposta è inoltre pervenuta anche una recente sentenza del Supremo Collegio, secondo la quale: «il trasferimento all’estero di cose di interesse culturale di non eccezionale rilevanza di cui al Decre- 104 to Legislativo n. 42 del 2004, articolo 65, comma 3, lettera a), diverse da quelle di cui all’allegato A, lettera B n. 1, e di valore pari o inferiore ad Euro 13.500,00, non integra il reato di cui al Decreto Legislativo n. 42 del 2004, articolo 174, comma 1» (Cass. Pen., sent. 08.3.2018, n. 10468).
Ne deriva, pertanto, per rispondere al quesito sopra posto, che l’esportazione di un’opera d’arte del valore inferiore a 13.500 euro non costituisca reato. Principio di diritto, questo, applicabile, in forza della retroattività della normativa penale più favorevole, anche ai fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della norma che – nell’Agosto del 2017 – ha modificato, nel senso sopra indicato, la normativa in tema di esportazione delle opere d’arte. A questo punto, citando un autorevole autore televisivo degli anni ’80, la «domanda sorge spontanea» : per valutare se l’esportazione di un’opera d’arte costituisca o meno reato, come è possibile stabilire se l’opera d’arte esportata abbia o meno valore economico inferiore o superiore a 13.500?
La risposta a tale fondamentale quesito nella valutazione della condotta di esportazione illecita ci viene fornita dall’art. 7 del CM 246/18, che prevede diverse ipotesi, sintetizzabili nelle seguenti quattro macro-ipotesi: a) nel caso di bene acquistato negli ultimi tre anni all’asta o da un mercante d’arte, sarà sufficiente produrre la fattura (o il fissato di aggiudicazione in asta) da cui risulti che il prezzo di vendita del bene, al netto delle commissioni (di vendita e di acquisto) e degli oneri (quali, ad esempio, i costi dell’assicurazione o del trasporto) , sia non superiore ai 13.500 euro. Non è inoltre richiesta la prova dell’avvenuto pagamento, limitandosi il decreto 246/18 ad esigere la prova della sola fattura o di altro documento a comprova della vendita;
b) nell’ipotesi, invece, di cessione fra privati negli ultimi tre anni, basterà allegare la copia del contratto sottoscritto dalle parti o, in alternativa, una dichiarazione congiunta dinanzi ad un pubblico Ufficiale abilitato a riceverla, con la quale si dichiari il prezzo al quale il bene è stato ceduto. Anche in tal caso, il decreto attuativo non richiede di fornire la prova dell’avvenuto pagamento del prezzo pattuito;
c) laddove, invece, l’esportazione sia finalizzata alla tentata vendita del bene in asta all’estero, sarà sufficiente produrre la prova (la pagina del catalogo d’asta o il mandato a vendere o la valutazione della casa d’aste), da cui si evinca che la stima massima della cosa non sia superiore ai 13.500 euro;
d) infine, in mancanza di una vendita o di una tentata vendita all’asta (ad esempio, nel caso di esportazione senza mutamento della proprietà dell’opera d’arte), sarà possibile per il privato allegare la stima di un perito iscritto all’albo dei consulenti tecnici di un Tribunale o presentare fisicamente la cosa all’Ufficio esportazione per la determinazione del valore del bene.
Altra questione di grande importanza nell’esame del reato di esportazione illecita è quella connessa all’individuazione delle conseguenze afferenti la mancata indicazione (o l’indicazione mendace), all’interno della denunzia per l’esportazione, di uno degli elementi richiesti dalla normativa che regolamenta la materia.
Per rispondere a tale quesito appare opportuno prendere le mosse dal dato normativo, rappresentato dal citato art. 68 d.lgv. 42/04, a norma del quale l’esportatore è tenuto ad indicare esclusivamente «il valore venale» del bene. Attenendosi al dato letterale ed in osservanza del principio secondo cui ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, appare quindi estranea alla denunzia ogni ulteriore specificazione afferente la qualità del bene da esportare (come – ad esempio – l’epoca; la scuola; l’autore; lo stato di conservazione del bene; etc.). Per l’effetto, stando al diritto vigente, l’unica specificazione che deve essere inserita nella denunzia per l’esportazione è quella relativa al «valore venale» del bene da esportare né altre specificazioni possono trovare ingresso al di là della previsione normativa. Del resto, posto che - per il II° comma dell’art. 42 della Costituzione - le limitazioni della proprietà sono soggette a riserva relativa di legge, è agevole dedurre che il privato non sia tenuto ad indicare nella denunzia per l’esportazione (il cui onere di presentazione rappresenta già un cospicuo limite legale alla proprietà privata, «riconosciuta e garantita dalla legge») altro se non quanto indicato dalla Legge stessa (ovvero, come detto, il «valore venale» del bene oggetto dell’esportazione).
A questo punto, però, sorge il seguente quesito: quale rilevanza ha il mendacio (su elementi diversi dal valore venale del bene) in materia di denunzia per l’esportazione?
Sul punto, occorre innanzitutto premettere che – nel Diritto Penale (men che meno, nel Diritto penale dei beni culturali) – non esiste una regola generale di repressione della frode. Il comportamento fraudolento, in altri termini, è punibile solo quando si possa ricondurre a specifiche norme incriminatrici e nello stretto ambito delle stesse, come peraltro indicato all’art. 1 del Codice Penale ed all’art. 25 della Costituzione repubblicana. Pertanto, per poter punire il mendacio, è essenziale rinvenire una norma che lo sanzioni espressamente. Ed invero, nel campo d’interesse, non solo non esiste una norma di tal genere ma – dal 1998 – è possibile affermare che il mendacio non sia più penalmente rilevante. Se, infatti, l’art. 66, I° comma, lett. b) della l.n. 1089/1939 criminalizzava non solo l’esportazione clandestina ma anche quella ottenuta attraverso «dichiarazione falsa o dolosamente equivoca» (punendo, pertanto, anche il mendacio), in sede di emanazione della Legge 30 marzo 1998 n. 88, il Legislatore - riscrivendo la norma incriminatrice per renderla omogenea alla legislazione europea – ha soppresso ogni riferimento al mendacio, rilevando la sua differenza ontologica rispetto all’esportazione clandestina. Ne deriva che, per quanto concerne la dichiarazione mendace, vi sia stata una vera e propria abolitio criminis, ovvero l’eliminazione di una incriminazione, con la conseguente ascrizione all’indifferente giuridico di un comportamento precedentemente punibile.
In questa situazione, appare quindi evidente come il mendacio (su elementi diversi dall’indicazione del valore venale) in sede di denunzia per l’esportazione non possa più assumere rilevanza penale.
Peraltro, si può infine prospettare un’ipotesi di questo genere: denunziando il proposito di esportare un bene culturale inconsueto e raro, l’esportatore può indicarne un valore particolarmente basso, per non allarmare l’Ufficio Esportazione e, quindi, per ottenere con maggiore facilità l’attestato di libera circolazione. Si tratterebbe, in tal caso, di una sorta di mendacio: la dichiarazione fraudolenta attiene infatti al valore del bene, non alla sua consistenza materiale.
Ma, a ben vedere, trovandoci di fronte ad un bene culturale inconsueto e raro, quale sarebbe il suo «valore venale» determinabile oggettivamente?
Non esistendo, infatti, parametri di riferimento, il «valore» è particolarmente inafferrabile e solo la libera contrattazione ne determinerà la consistenza. Quindi, come osservato in dottrina (Lemme), parlare in questi casi di «mendacio» appare assai problematico, non esistendo spazi per una «verità alternativa» da contrapporgli.
Sul punto, per completezza, giova infine osservare come, all’inconsistenza (anche in virtù dell’ abolitio criminis ad opera della legge n. 88/98) in sede penale di tale condotta, segua l’irrilevanza del comportamento de quo anche in sede amministrativa, non essendovi nella legge l’obbligo di indicare «il giusto valore venale», ma solo quello ritenuto essere «il valore venale».
Altro tema di enorme rilevanza (per le sue ricadute sul piano patrimoniale) del reato di esportazione illecita è quello della confisca dell’opera d’arte illecitamente esportata, salvo che questa appartenga a persona estranea al reato.
Al riguardo, appare utile chiarire che l’estraneità al reato possa ritenersi sussistente laddove il proprietario del bene non sia autore dell’esportazione (o concorrente ex art. 110 c.p.) e non abbia tratto alcun profitto dall’esportazione illecita del bene di interesse culturale di sua proprietà.
Francesco Emanuele Salamone di SDV Avvocati Associati è professore a c. di Diritto penale dei beni culturali presso l’Università della Tuscia.