Professionisti, mercato e responsabilità: imprese sociali, imprese culturali, società benefit. E non solo

di Franco Broccardi

Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°3, Gennaio 2019

I temi sono tanti e pensare ancora di poggiare le speranze nel Pubblico (sebbene l’importo degli ultimi finanziamenti sia stato di 2,8 miliardi e tutto sommato negli ultimi anni si è invertito il trend calante dei soldi per il nostro patrimonio culturale ecco vorremmo che il futuro andasse ancora in questa direzione di crescita di risorse sia per la tutela e la protezione sia per lo sviluppo e la digitalizzazione. Ci sono tante cose da fare perché la cultura non è un bene di consumo ma è un bene di crescita sociale e collettiva che può mettere in movimento imprese. Pensiamo ad esempio a tutte le nuove start-up che lavorano nel settore digitale e dell’audio-video: esiste un enorme lavoro di digitalizzazione da fare in tutti i nostri musei prima che qualcun altro, esterno alla nostra economia, capisca il valore economico del nostro patrimonio incredibile e inestimabile e lo sfrutti al nostro posto.
Si parla spesso di impresa culturale e creativa, delle sponsorizzazioni culturali, di come aumentare il tasso economico della cultura, come renderlo servizio non solo nel non profit ma anche, e non è uno scandalo, dei settori profit della cultura perché proprio il profitto può essere alimento di nuova cultura.
La nostra professione è quella di traduttori. Da un lato noi commercialisti ci troviamo frequentemente a dover «tradurre» norme poco chiare e interpretabili così come al tempo stesso, ed è la traduzione che più ci piace, siamo portatori all’attenzione della stessa politica delle istanze di chi è alla base di un tessuto economico e che spesso la politica non sa leggere e tutto questo, nel caso del settore della cultura, affinché possa essere possa diventare a tutti gli effetti un motore di interesse anche economico per il nostro Paese.
Da tempo abbiamo insistito proprio su questo sollecitando, in una prima fase, il Consiglio Nazionale ad aprire un tavolo di lavoro che si occupasse di economia cultura e successivamente con la nascita di AEGI, l’associazione tra commercialisti, avvocati e notai, lavorando insieme tra professioni per ottenere un maggior peso specifico e portando avanti ancora con ancor maggior decisione quello che ci interessa effettivamente porre l’attenzione soprattutto su due ordini di problemi.
Il bisogno di questo settore di organizzazione e struttura, di normative chiare su cui impiantare idee, lavoro e sviluppo. Penso alla riforma del terzo settore in questo momento che è ancora in mezzo al guado così come mancano incentivi e chiarezza sulle società benefit mentre non sono pienamente attuate quelle relative alle imprese culturali e creative che aspettano un decreto attuativo che al momento non è ancora alle viste.
Tutto questo induce al secondo fattore di criticità: la sostenibilità. Sappiamo benissimo che il calo del finanziamento pubblico è progressivo e che il trend non si prospetta positivo non solo per tagli ai fondi da parte dello Stato e dei Comuni ma perché, come evidente nella riforma il terzo settore si punta fortemente alla sostenibilità dei progetti. Non è una bestemmia parlare di profit anche in ambito culturale.
Siamo abituati a ragionare per categorie. Buoni/cattivi o se preferite cowboys/ indiani, bianco/nero, destra/sinistra, i Genesis prima/dopo Peter Gabriel. Siamo abituati a pensare le cose immutabili e ferme ma il mondo dovrebbe insegnarcelo ogni giorno: tutto cambia e non resta che adeguarsi.
Tutto, in questi tempi, si muove verso quella che Marco Cammelli definisce una solida flessibilità. E così parole come Mercato e Responsabilità sociale non sono più contrapposte. Sono, anzi, il segno di questi tempi ibridi e profondi.
Per generare sviluppo oggi non si può più tenere in considerazione solo il valore economico ma assume sempre maggiore rilevanza l’impatto sociale delle attività d’impresa cosicché l’interesse delle società è sempre più rivolto a questi e agli aspetti legati reputazionali e a quelli di responsabilità sociale.
La corporate social responsability è una strada che sempre di più incrocia le scelte imprenditoriali e che in qualche modo realizza le idee che già erano di Adriano Olivetti. E dall’altra parte, il Terzo Settore ha nella sostenibilità il recinto entro cui portare a buon fine i propri obiettivi caratteristici.
Con le nuove norme sull’Impresa Sociale, e soprattutto con la spinta che la riforma tutta del terzo settore ha dato proprio in questa direzione, si sono abbattuti muri e vecchi abiti mentali. Il non profit non vede più nelle attività commerciali un tabù o, peggio, un inquinamento della propria purezza. Non for profit è il modo corretto in cui dovremmo abituarci a pronunciarlo.
Spingendosi ancora oltre, abbiamo abbattuto il confine dell’habitus giuridico: possono essere Imprese Sociali anche le società di capitali. Si pensi ad Andrea Bartoli, il notaio di Favara fondatore di Farm Cultural Park: la sua nuova opera sarà S.p.A.B. la Società per Azioni Buone. Una S.p.A. Impresa sociale votata al recupero di immobili da destinare ad attività sociali. Una S.p.A. che come ogni società di capitali dovrà garantirsi la piena sostenibilità e che come ogni impresa non profit si dedicherà ad attività di pubblica utilità.
Ma l’ibridazione la troviamo anche nel capo opposto. Le Società Benefit, introdotte nel nostro ordinamento con la legge di bilancio 2016, non prescindono dallo scopo lucrativo ma rappresentano una nuova possibilità data alle imprese già esistenti o di nuova costituzione di proteggere l’attività imprenditoriale nel lungo termine puntando a massimizzare non solo i dividendi per i soci come nelle strutture societarie profit ma anche l’impatto positivo sugli altri portatori d’interesse.
Con le società benefit l’interesse si moltiplica a vantaggio di altri beneficiari, l’egoismo utilitaristico lascia il passo al beneficio comune e il fine vira da quello che era lo shareholder value, il beneficio per i soci, verso lo stakeholder value, quello della categoria più grande e importante dei portatori di interesse.
E ancora: quello che prima era relegato ad atto occasionale e soggetto al giudizio dell’assemblea diventa parte integrante del processo aziendale, ciò che era sporadico si ritrova sistemico, quello che spesso era casuale diventa una prassi non solo possibile ma addirittura obbligatoria. Quello che era soggettivo, quindi, è ora parte dell’oggetto sociale, attività sottoposta al controllo non più incentrato sul perché ma sul come. Operare in ambito culturale, esserne imprenditore, significa avere a che fare con una pluralità di portatori di interessi di genere alquanto vario, navigare in un mare che, per definizione, non è mai uguale a sé stesso. La flessibilità, quindi, la capacità di adattamento, di possibilità di scelta del modello gestionale più aderente alle capacità e alle esigenze devono essere strumenti di serie nella cassetta degli attrezzi dell’impresa culturale e non più solo parte del kit di salvataggio. Molto spesso nelle discussioni sulle imprese culturali si ha l’impressione che tutto ciò che è adesso così sarà per sempre, immutabile in saecula saeculorum. Che la nostra strada sia sempre un senso unico. Non lo è, invece. Non lo è nessuno status giuridico né uno statuto. Non lo sono il modello di governance, l’assetto e neppure gli obiettivi prefissi.
Certamente la mancata introduzione di incentivi fiscali alle società benefit rende meno appetibile la loro diffusione. Ma ancor più grave è l’incertezza ancor oggi irrisolta circa la possibilità di considerare i costi relativi della attività benefit inerenti e, soprattutto, pianamente deducibili. Su questo argomento e sul tema delle sponsorizzazioni culturali è stato aperto un tavolo di discussione con l’ufficio normativo dell’Agenzia delle Entrate anche se è dalla politica che ci dovremo aspettare indicazioni chiare a riguardo.
Così come dalla politica non potremo prescindere circa la reale applicazione delle norme sull’Impresa Culturale e Creativa definite con la legge di bilancio dello scorso anno. Una definizione che ha fatto proprio il senso dell’ibridazione a cui abbiamo accennato prima e che non ha voluto porre barriere tra profit e non profit, tra attività commerciali e non, che non ha voluto giustamente separare ciò che non è sempre così facilmente separabile: il culturale dal creativo. Che, sostanzialmente, non ha voluto distinguere il come né soffermarsi troppo sul perché ma ha posto l’accento sul cosa, nel suon senso più ampio, e soprattutto sul per chi. Servirà la politica per non perdere una occasione. Servirà un rapporto corretto e illuminato con le istituzioni. Con l’Agenzia delle Entrate, anche, per dare certezza al settore.
Con quest’ultima, ad esempio, abbiamo posto sul tavolo la questione delle sponsorizzazioni culturali e, di conseguenza, il tema delle spese sostenute delle società benefit per il loro scopo accessorio. Non una battaglia di poco conto questa, ma una possibile via di finanziamento alle attività culturali ma solo in presenza di istruzioni chiare e certe.
Il problema è sempre quello dell’interpretazione delle norme. Perché se una società di capitali decidesse di essere sponsor di una mostra o di una qualsiasi attività di carattere culturale dovrà porsi alcune domande. Nonostante le pronunce anche recenti della Cassazione l’Agenzia delle Entrate è molto spesso sospettosa nel considerare i costi delle sponsorizzazioni come inerenti alla produzione dei ricavi e, di conseguenza, gli stessi sono passibili di ripresa fiscale in caso di verifica operata da un soggetto particolarmente attento più alla lettera delle norme che alla loro reale portata.
L’incertezza interpretativa delle norme induce le persone, fisiche o giuridiche, all’inattività: se non è certo il destino fiscale dei costi che sostengo, se non so se la qualifica di sponsor non mi garantisce la deducibilità dei costi, se non so se tali costi possano essere considerati assimilabili a quelli di pubblicità o a quelli di rappresentanza non è improbabile che tali soggetti scelgano altre strade o peggio scelgano di non fare niente e di investire altrove le risorse che altrimenti sarebbero state destinate a finanziare attività culturali creando, pertanto, un danno indiretto al settore venendo meno fonti di finanziamento a un settore. E tutto ciò quando al settore sportivo la stessa possibilità è concessa.
È una decisione politica. Il settore sportivo ha un rappresentante forte, il CONI, che si pone come controparte nella difesa dei diritti della categoria. Considerando i numeri prodotti dal comparto culturale sarebbe il caso di pensare seriamente ad una rappresentanza forte degli interessi del settore. In questo il ruolo delle professioni giuridico-economiche potrà senza dubbio risultare determinante nell’elaborazione di proposte normative come anche quelle elaborate in un secondo tavolo di lavoro aperto con l’Agenzia delle Entrate riguardante il mercato dell’arte e che possano favorirne lo sviluppo.
Un tavolo, questo, in cui il ruolo politico è ancor più determinante in quanto le proposte espresse necessitano di un passaggio normativo e di una volontà, appunto, politica.
I temi sono molti e noti. Da un lato è discusso dell’abbassamento dell’aliquota IVA gravante sulle importazioni portavo dal 10 al 5 per cento. Una diminuzione che significherebbe creare un mercato al momento inesistente e, di conseguenza, un vantaggio per l’erario.
Abbiamo posto sul tavolo, poi, la questione relative alle cessioni di opere d’arte tra privati. Come noto la norma italiana prevede che queste non siano imponibili ma l’Agenzia delle Entrate ha posto una grande attenzione su questo genere di operazioni in quanto non è affatto infrequente che mercanti e speculatori, sotto la maschera di collezionisti, operino in concorrenza sleale con le gallerie d’arte creando un baco nel sistema e nei meccanismi del mercato. Per questo abbiamo proposto un meccanismo di tassazione su tali operazioni mutuando quella prevista per le plusvalenze finanziarie da applicarsi alle cessioni operate nei cinque anni successivi all’acquisto (con l’esclusione delle opere ricevute in successione) e un sistema decrescente simile a quello esistente in Francia che porti alla completa detassazione delle plusvalenze su cessioni detenute da più di dieci anni. I meccanismi possono essere anche diversi ma la cosa più importante è di dare certezze sul piano del diritto: così come detto precedentemente relativamente all’inerenza lo stesso vale anche in questo caso. La necessità di avere certezza del diritto affinché si possano creare i presupposti per un mercato funzionale ed efficiente.
Un’ ultima cosa, infine.
Da tempo, ormai, si fa riferimento a studi scientifici che dimostrano come le attività culturali abbiano evidenti effetti positivi sulla salute delle persone. La domanda che ci siamo fatti e che abbiamo posto all’attenzione della politica attraverso proposte di emendamento alle leggi di bilancio 2018 e 2019 è: se l’arte è cura e prevenzione perché non equiparare all’interno della dichiarazione dei redditi le spese culturali alla pari delle spese mediche? Si tratterebbe certamente di un segnale importante di attenzione al valore della cultura e l’Italia sarebbe sicuramente il primo paese al mondo ad attuare una politica di questo tipo. Peraltro sarebbe interessante verificare se un tale regime fiscale si traduca effettivamente in costo nel bilancio dello Stato sotto un duplice profilo. L’aumento dei consumi culturali, da un lato e nel lungo periodo, porterebbe ai consumi di medicinali con il conseguente assorbimento delle detrazione previste per tali spese e, soprattutto, in quanto i consumi culturali si esplicitano in operazioni soggette ad IVA che consentirebbero di recuperare parte se non completamente il gettito.
I temi e i campi su cui l’attività della Associazione Economisti e Giuristi Insieme sono evidentemente molti e stimolanti. Sarà fondamentale per noi creare un sistema professionale che dia struttura e organizzazione a questo comparto sia formando gli iscritti affinché siano maggiormente attenti e preparati in un campo certamente specifico e con necessità di particolare sensibilità sia aiutando gli operatori alla conoscenza delle buone prassi imprenditoriali sempre più necessarie per lo sviluppo delle attività economiche indipendentemente dall’ambito profit/non profit. Perché tutto questo ha sempre ovvi risvolti economici. Solo per fare un esempio si pensi a questi numeri. L’Art Bonus ha consentito di raccogliere in 4 anni 200 milioni di Euro da oltre 6000 donatori privati. Allo stesso tempo, ed è solo uno dei molti esempi che possono essere fatti, nella Regione Sicilia si sono sciupati 120 milioni di finanziamenti dell’Unione europea per incapacità di rendicontare la spesa.
Concludendo: l’augurio è che il rapporto tra ministero e professioni economico-giuridiche diventi più forte, propositivo e comprensivo degli operatori del settore e dell’amministrazione finanziaria. E che a tale tavolo di lavoro siedano i Ministeri. Quello dei Beni e delle Attività Culturali ma anche quello dell’Economia e della Finanza necessario all’attuazione di ogni piano di sviluppo.

Franco Broccardi è dottore commercialista, partner dello studio BBS-Lombard e fondatore di ÆS. Per il CNDCEC coordina il gruppo di lavoro Economia e cultura ed è membro del gruppo di lavoro Arte e Cultura dell’Associazione Economisti e Giuristi Insieme costituita dal Consiglio Nazionale del Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, dal Consiglio Nazionale Forense e dal Consiglio Nazionale del Notariato.