Riforma del terzo settore e enti culturali: cosa cambia?

di Monica De Paoli

Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°4, Aprile 2019

Riprendo il filo ideale delle considerazioni di Franco Broccardi pubblicate nello scorso numero di ÆS, sugli strumenti giuridici a disposizione di chi si occupa di cultura, tra profit e non profit, con un focus sulla riforma del Terzo settore e le opportunità che offre (o non offre) agli operatori culturali.
Si parla molto di forme di co-economy, di economia generativa, di ibridazione tra mondo profit e non profit; sono segnali di una sensibilità mutata e ancora agli esordi - da parte di chi si occupa di impresa in generale e in particolare di economia sociale. Alla sua origine le nuove esigenze che la società manifesta, incluso l’accresciuto senso di partecipazione e di responsabilità verso beni e valori comuni.
Spinge con forza in questa direzione la progressiva sostituzione del pubblico con il privato, che in molti settori rende pressochè obbligatorie forme di collaborazione e «messa in rete» di esperienze e risorse. E che necessita anche di una maggiore professionalizzazione degli operatori.
La riforma del Terzo settore interviene in un momento topico e in una serrata discussione. Aspettando i numerosi decreti attuativi e il via libera della Commissione Europea per le agevolazioni fiscali, l’analisi sui tipi di Enti di Terzo settore e sulla loro governance iniziata anche in vista dei prossimi adeguamenti statutari. Sia il Codice del Terzo settore che il decreto sull’Impresa sociale ricomprendono l’attività rivolta alla salvaguardia e alla valorizzazione dei beni culturali tra quante possono essere esercitate dagli ETS (le imprese sociali sono ETS di diritto) e che quindi possono godere delle agevolazioni fiscali ad essi riservate. Le aree di intervento previste sia dal Codice del Terzo settore che dal decreto sull’Impresa sociale sono:
• interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del d.lgs 42/04 e successive modificazioni;
• organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse anche la promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale.
Per l’Impresa sociale sono anche previste le attività di organizzazione e gestione turistica di interesse sociale, culturale o religioso.
Non è questo il luogo per approfondire i contenuti della riforma, ma vorrei proporre qualche spunto di riflessione per chi si occupa di cultura e si trova di fronte alla scelta se diventare ETS (sappiamo infatti che non si tratta di una scelta obbligata, ma su opzione o condizionata dalle finalità e attività che l’ente si prefigge di svolgere) e con quali modalità, o che sta per intraprendere un nuovo progetto culturale.
Una volta deciso il campo di gioco (non profit - ETS), nella scelta del modello è fondamentale individuare la tipologia di struttura più adatta, anche e soprattutto in termini di crescita, di sostenibilità, di opportunità di aggregazione che possono essere colte.
Sappiamo che nè il Codice nè la nuova disciplina dell’Impresa sociale hanno modificato i modelli civilistici esistenti, e quindi le forme sono quelle delle associazioni, delle fondazioni, dei comitati previsti dal Libro I del codice civile e, per le imprese sociali, anche alcuni tipi di società.
Si poteva fare di più e meglio? Certamente sì, seguendo le direttive della Legge delega del 2016 e operando una profonda quanto necessaria riforma del Libro I del codice civile, applicabile a tutti gli organismi non profit, ETS o non ETS. Il Codice del Terzo settore detta una disciplina esaustiva delle associazioni, mentre tratta marginalmente delle fondazioni (tipicamente uno strumento molto utilizzato nell’ambito culturale) che richiedevano invece una regolamentazione seria per ridurre i margini interpretativi e le diverse prassi invalse a livello territoriale negli ultimi decenni, spesso a causa di indirizzi difformi dettati dagli enti pubblici preposti al riconoscimento della personalità giuridica.
L’unico intervento in materia di governance delle fondazioni riguarda l’ammissibilità delle cosiddette Fondazioni di partecipazione (ossia fondazioni la cui struttura di governance affianca agli organi amministrativo e di controllo un altro organo partecipativo, sulla falsariga del sistema dualistico delle società per azioni). Si tratta di un modello molto utilizzato soprattutto da enti di maggiori dimensioni o partecipati da enti pubblici o soggetti istituzionali, inclusi i big donors, perché consente di fare partecipare questi soggetti alla vita dell’ente con funzioni per lo più di indirizzo o consultive.
Le forme associative rappresentano la scelta più immediata e più giusta per attività di affiancamento di realtà culturali (la formula degli «Amici di…») l’organizzazione di eventi, la raccolta fondi, l’aggregazione comunitaria in progetti di piccole o medie dimensioni, la valorizzazione di realtà locali. La Fondazione resta la forma naturale per «mettere in sicurezza» un patrimonio o determinati valori con una lunga prospettiva di tempo, così da andare oltre le persone che l’hanno ideata e realizzata. Non è un caso che molti musei privati siano costituiti come fondazioni e che enti di lunga tradizione nati in forma associativa a un dato punto si trasformino in fondazione per consolidare i risultati raggiunti.
Per assumere la qualifica ETS le associazioni e le fondazioni dovranno iscriversi nel Registro unico optando per una delle categorie previste (tra le quali è stata introdotta quella degli enti filantropici) o per la categoria residuale («altri enti che svolgono le attività di cui all’art. 5») assoggettandosi agli obblighi previsti in tema di rendicontazione, pubblicità ecc..
Sia le associazioni riconosciute che le fondazioni che acquisiscono la qualifica di ETS (l’art 10 direbbe solo se iscritte al Registro delle imprese, ma ho ragione di credere che sia una svista del legislatore) potranno costituire patrimoni destinati, secondo la disciplina prevista per le società per azioni. Si tratta di un istituto introdotto con la riforma delle società del 2004, sino a ora non utilizzato ma che può rivelarsi utile agli enti di Terzo settore, per aggregare anche soggetti estranei all’ente attorno allo sviluppo di singoli progetti, con la garanzia della segregazione patrimoniale.
Questa tipologia di fondi diventa particolarmente interessante quando vengono costituiti all’interno di fondazioni (penso all’esperienza delle fondazioni di intermediazione filantropica) che svolgono professionalmente il ruolo di gestori e accompagnano lo sviluppo di progetti (occupandosi oltre che della gestione delle risorse patrimoniali, della selezione di professionisti e partner, della raccolta fondi, di servizi aggiunti ecc.). Spesso avviene infatti che la costituzione di una fondazione porti con sé significativi costi di gestione, problemi di sostenibilità, difficoltà di trovare soggetti competenti per le cariche istituzionali.
Il fondo acquista così anche il senso di «incubatore» temporaneo che copre la fase di start-up e può poi evolvere in fondazione in presenza di condizioni favorevoli. Tanto più perché, in quanto costituiti all’interno di un ETS, i fondi usufruiscono delle agevolazioni fiscali ad essi riservate.
Se poi l’ente culturale svolge attività economica in via prevalente - pur in ambito non lucrativo - la scelta dell’impresa sociale in forma societaria e in particolare in quella di società per azioni può offrire la possibilità di raccogliere finanziamenti ed equity attraverso l’emissione di strumenti finanziari partecipativi o con la previsione di quote e azioni di diverse categorie per attirare capitali esterni (si veda l’esperienza di Music Innovation Hub).
Il Codice non disciplina i trust (che in passato hanno anche ottenuto la qualifica onlus) ma ritengo che potranno rientrare fra gli ETS nella categoria residuale del Registro unico, accedendo alle relative agevolazioni fiscali.
Ulteriore esclusione dagli ETS riguarda il contratto di rete (riservato, come noto, agli imprenditori) disciplinando solo la Rete associativa. Questa appare come un’occasione perduta di dotare gli enti - culturali e non - di uno strumento leggero ma con grandi capacità di mettere a fattor comune risorse, esperienze, segmenti complementari di attività.
Una conclusione? La riforma del Terzo settore offre qualche opportunità interessante ma non rivoluziona l’approccio (anzi, mantiene uno spirito molto ancien regime sulla netta divaricazione tra attività non profit in senso tradizionale e attività commerciale) apparendo già in affanno di fronte ai tanti progetti che avanzano, spesso appartenenti a logiche di impatto più avanzate.

Monica De Paoli è notaio in Milano, membro della Commissione Terzo Settore del Consiglio nazionale del Notariato.