Sviluppo della cultura nei prossimi anni: ecco perché i processi di governance saranno sempre più importanti

di Antonio Lampis

Dopo decenni di maggiore prevedibilità, assistiamo oggi a forti e rapidi cambiamenti, in quasi ogni paese sviluppato, che hanno ed avranno sempre maggiore influenza sullo sviluppo della cultura.
Il primo è quello della disponibilità ormai capillare degli strumenti di elaborazione di dati che chiamiamo intelligenza artificiale e che certamente per la loro improvvisa, imprevista e facile diffusione, avranno un notevole impatto sulla relazione tra chi è preposto o intende tutelare e/o valorizzare il patrimonio culturale, il lavoro degli artisti e i pubblici di riferimento consueti o nuovi.
Il secondo cambiamento è determinato dalla maggiore frequenza dei cambiamenti di orientamento politico delle popolazioni e conseguentemente dei governi centrali o locali e, ovviamente, anche i cambiamenti che si attendono o che sono già in atto tra le istituzioni religiose e in coloro che gestiscono strumenti particolarmente incisivi nella formazione delle coscienze.
A fronte di tali cambiamenti il governo organizzativo del settore culturale, come si può chiamare la governance in un buon italiano, assume un ruolo sempre più importante e merita maggiori attenzioni.
È, ormai, evidente quanto stia crescendo la consapevolezza dell’importanza della partecipazione culturale, del sostegno alla creatività, della salvaguardia dei patrimoni materiali ed immateriali (più o meno identitari) per il benessere fisico, sociale ed economico. Conseguentemente si attendono politiche pubbliche e azioni da parte dei privati più forti e strategiche.
In Italia e in molti paesi europei è ormai ineludibile la necessità di una legge organica sulla cultura, buona per tutti i settori e tutti i livelli istituzionali, centrali e locali. In particolare, in Italia, una tale legge aiuterebbe a superare la superficiale abitudine di pensare che la gestione della cultura stia quasi solo nel Ministero, ricordando e raccordando invece meglio il ruolo delle Regioni e dei grandi comuni, già oggi determinanti per la vita delle istituzioni culturali. Una legge organica sarebbe, inoltre, fondamentale per riconoscere e valorizzare le importantissime aspettative dei piccoli comuni o, comunque, si chiamino le comunità diverse dai centri più noti e popolati. Si attende da decenni un contratto che riconosca un miglior trattamento economico e giuridico ai lavoratori del settore culturale e i nuovi cambiamenti renderebbero necessario anche con un codice etico, pressoché generalmente obbligatorio, per qualsiasi relazione tra privati e finanziamenti pubblici, per le concessioni, i partenariati eccetera.
Ministero e assessorati alla cultura possono legittimamente mantenere la loro posizione di leadership se la qualificazione eccellente dei funzionari e della dirigenza preparata tornerà ad essere indiscussa. Questa qualificazione, che dovrebbe essere scontata, è stata una delle glorie del passato italiano, ma si è indebolita negli ultimi anni a causa di una serie di fattori, tra cui le norme della funzione pubblica che hanno portato a un livellamento dei requisiti e delle opportunità di carriera; la carenza di formazione continua, lo stratificarsi incontrollato di personale di enti dismessi e di progetti occupazionali di tipo assistenziale; le irragionevoli carenze organiche; i troppi interim; i carichi di lavoro disumani; la difficoltà di relazionarsi in modo produttivo con le imprese e di attrarre talenti da altri settori, sia pubblici che privati. Per ripristinare la fiducia nel sistema culturale italiano, è necessario affrontare questi problemi e ripristinare sistemi di selezione rapidi, efficienti e trasparenti e nuove opportunità di carriera che consentano ai giovani funzionari e dirigenti di eccellere.
Un maggiore sinergia tra Stato, Regioni ed Enti Locali sarà indispensabile per ridefinire e promuovere (anche con retribuzioni più consone) le competenze culturali. Sarà necessario giungere ad una maggior uniformità e trasparenza in alcuni processi cruciali, primo fra tutti quello della selezione delle dirigenze e la realizzazione di un sistema di impiego che paghi meglio lo specialista e non lo assurga al ruolo di dirigente solo per potergli attribuire uno stipendio dignitoso, lasciando viceversa le dirigenze alle persone che hanno dimostrato di saper fare il difficile mestiere di dirigere. Sarà importante uscire da ogni autoreferenzialità, dal preoccuparsi troppo del titolo di studio preso in gioventù, dei giudizi dei colleghi e conseguentemente troppo poco degli artisti, dei visitatori o degli spettatori. Parallelamente il settore, che inevitabilmente rincorre la velocità del pensiero degli artisti e la volatilità dei pubblici, va liberato dalla spada di Damocle tipica del sistema normativo italiano, la criminalizzazione dell’errore. L’impegno pubblico per la cultura dovrà essere sempre meglio rivolto a favorire una partecipazione inclusiva dei più giovani e a favorire la genesi di posti di lavoro per le nuove generazioni che non hanno ceduto alle lusinghe di un lavoro più pratico, ma hanno ostinatamente voluto studiare la storia dell’arte, l’archeologia e le altre materie umanistiche. Per i politici e i dirigenti attivi nel settore cultura l’occupazione giovanile qualificata, stabile e ben retribuita dovrebbe essere un primario obiettivo e posso testimoniare che quando ci si riesce diviene la fonte della migliore soddisfazione professionale.
Una sfida fondamentale sta nel rapporto con la formazione e nell’ampliamento delle pratiche di offerta capillare.
L’accessibilità alla cultura dovrebbe difatti essere migliorata con una radicale riscrittura migliorativa delle sinergie tra istituzioni culturali e scuola, grazie all’incremento delle pratiche di formazione lungo tutto l’arco della vita e i progressi delle università nella terza missione, la relazione con i territori. Ovviamente, una maggiore partecipazione culturale potrebbe ottenersi anche grazie alla digitalizzazione e all’uso di tecnologie. Il divario digitale potrebbe essere meglio superato proprio con l’incremento di offerta di educazione permanente, soprattutto anche non escludendo le persone nella terza età. Ricordo un chiaro intervento di Michele Trimarchi nel volume Lo spettatore virale dove egli evidenziava quanto fosse obsoleto il modo di fare cultura e formazione oggi e come potrebbe riconfigurarsi un sistema culturale educativo alla prova dei tempi. Auspico che in Italia sia il Ministero della Cultura a diventare il riferimento di un’educazione permanente che esca dalle sole iniziative regionali, divenendo un programma nazionale stabile. Ne abbiamo bisogno anche per il PNRR, che richiede iniziative (i bandi) ministeriali. Per questo ho indicato questa prospettiva a tale Ministero sperando che venga raccolta.
La produzione culturale è già oggi oggetto di una vera e propria rivoluzione. Non solo i contenuti devono cambiare, ma anche il modo in cui si avvicinano le persone alla cultura. Questo significa incrementare le pratiche fuori dalle istituzioni, fuori dai musei, dai teatri, verso le case delle persone, nei cortili dei condomini, nei piccoli paesi come si è fatto in provincia di Bolzano da ormai molti anni. Questa prospettiva radicale di trasformazione del fare cultura e fare educazione dovrà anche rivalutare il ruolo degli insegnanti, degli operatori culturali e degli artisti. Rivalutare significa anche, e soprattutto, pagarli molto meglio e aumentare notevolmente le dotazioni organiche. Non c’è denaro pubblico meglio speso, anche perché oggi assistiamo al fallimento di moltissime famiglie che oppresse dalle difficoltà economiche e sociali, non riescono più a dare supporti educativi nella prima infanzia e nella prima giovinezza riguardo all’educazione affettiva, all’educazione relazionale, alle cose base che fanno poi il cittadino partecipante, il cittadino che non crede alle fake news, il cittadino attivo da un punto di vista democratico. Governare meglio il cambiamento significa agire affinché insegnanti, operatori culturali e artisti siano disponibili in maggior numero e siano meglio pagati tanto da poter smettere di dire, come spesso avviene, questo non è il mio mestiere, quando un’azione di supplenza alle carenze di altre istituzioni sociali diviene inevitabile. In tale processo sono importanti gli anziani che possono continuare a imparare non solo frequentando le agenzie di educazione permanente, ma ricordando che il modo migliore di imparare è insegnare, tramutandoli così quando possibile in mentori, dentro le famiglie, le associazioni, le agenzie di educazione permanente. Questa circolarità dell’educazione permanente è un’altra delle prospettive per renderla solida dal punto di vista economico, strutturale e dell’appoggio politico di un futuro Parlamento e dei futuri Governi.
È sempre più facile e spontaneo pensare che la produzione culturale possa essere facilmente digitalizzata e quindi maggiormente diffusa e finanche divenire più internazionale, grazie ad una maggiore fruizione online. Tuttavia, ritengo che la vera prospettiva di valore della cultura risieda nella prossimità e nel conseguente ritorno a forme performative dal vivo, tradizionali, in dimensioni ridotte e personalizzate per il contesto locale, nei quartieri, nei cortili e nei piccoli paesi, e nelle nuove forme inclusive di particolari categorie finora ai margini. È chiaro e gli strumenti dell’intelligenza artificiale consentiranno di superare in modalità finora inesplorate le necessità di sintesi di contenuti prolissi e soprattutto molti degli ostacoli posti dalle differenze di lingua e delle comunicazioni con persone sorde o non vedenti o con altre necessità di mediazioni cognitive o culturali. Qui ci si può davvero aspettare un cambiamento rivoluzionario e vale la pena fin da ora prepararsi ad investire. Le opportunità sono enormi non solo per i musei e luoghi della cultura, ma anche per le rappresentazioni teatrali, per un nuovo accesso al melodramma nei piccoli e nei grandi teatri, per la musica classica, che, come diceva il più noto direttore della BBC, John Tusa, avrebbe sempre avuto bisogno di qualche parola introduttiva e di qualche immagine per essere meglio compresa. Oggi, quasi improvvisamente, tutte le parole, in tutte le lingue del mondo sono disponibili a chi propone cultura, non resta che mettere a frutto i propri studi e le proprie competenze, analizzando anche la nuova messe di dati offerti dalle piattaforme digitali. Ovviamente servirà che tutti gli operatori culturali siano molto meglio formati alle conoscenze interdisciplinari e alle nuove potenzialità tecnologiche per poter instaurare relazioni dirette, empatiche ed autentiche con persone da ogni continente oppure con persone molto distanti per età, conoscenze e stili di vita. Ciò significa anche rivedere i percorsi di studio con la necessaria urgenza.
Per raggiungere questi nuovi traguardi è quindi necessaria una più intelligente committenza pubblica e privata e un’alleanza tra il mondo della cultura, intellettuali, storici, antropologi, sceneggiatori, sociologi e operatori turistici. Non è bene continuare a lasciare un settore cruciale per la ripresa spirituale, sociale, sanitaria (sappiamo ormai bene che la cultura allunga e migliora la vita in termini propriamente sanitari) ed economica a istanze autoreferenziali favorite dalle lamentele di chi non si sa godere la meritata pensione e dalla insistente voce di alcuni cattivi maestri che hanno contribuito al moltiplicarsi coloro che in alcuni miei scritti definisco i giovani-vecchi: essi sono i complicatori di affari semplici che si ammantano delle complicate procedure burocratiche per mascherare la loro inconsistenza. La figura del giovane-vecchio/a si incontra non di rado soprattutto nelle grandi città centro di potere. Si tratta di un uomo o di una donna al massimo vicino ai quarant’anni, solitamente discendente da personalità illustri dell’amministrazione o della politica, che verosimilmente hanno passato l’infanzia a tavola con ministri, capi di Stato, noti professionisti o intellettuali, cardinali e principesse. Già al liceo sembravano anziani e arroganti, immaginateli con un piccolo potere: sono quelle persone che scrivono testi incomprensibili, pretendono comportamenti ossequiosi e un formalismo esasperato di cui si compiacciono e che è per loro una nuvola di fumo, nella loro scarsa esperienza, utile a mantenere il piccolo potere guadagnato. La difesa e reiterazioni di quei formalismi pesanti, ereditati dai nonni, ha rallentato colpevolmente negli ultimi decenni la macchina amministrativa. Difenderli ancora oggi significa non accorgersi che il mondo è cambiato e, soprattutto, che il fattore tempo ha assunto un ruolo molto più importante nella macchina pubblica e nella vita dei cittadini e delle imprese che lavorano inevitabilmente subendo i ritmi da quello che chiamiamo, appunto, turbocapitalismo. Sui cattivi maestri scrivevo ancora: Il patrimonio culturale italiano, per decenni lasciato nel più evidente disinteresse, ha acquisito negli ultimi anni una improvvisa ribalta che non può che rendere molto soddisfatti gli operatori culturali. Tuttavia, contemporaneamente, ha anche risvegliato gli interessi di un sottobosco di carrieristi, mediocri studiosi che si indignano sulla gestione del patrimonio senza averne mai fatto alcuna esperienza, politici impresentabili o in panchina alla ricerca di cariche e ruoli, leoni da tastiera, vecchi e nuovi partiti et similia.
Sono indispensabili nuove regole di governo organizzativo e uno sforzo verso una reale e trasparente modernizzazione. L’alternativa a talo sforzo è chiara: musei, spettacoli, concerti che diventano cartolina di sé stessi che tendono ad annoiare il pubblico ed a perderlo per non sforzarsi di cogliere le opportunità delle nuove tecnologie e dei nuovi modi di raccontare. È quanto è accaduto con la concezione petrolifera della cultura che ha creato il mostro delle città d’arte, ormai luoghi dell’ossessivo mangiare, esempi da fuggire come la peste, per non dover fare delle nuove generazioni un popolo di camerieri.
Il tema della maggiore frequenza dei cambiamenti nell’ambito dell’orientamento politico delle popolazioni e conseguentemente dei vertici di coloro che gestiscono la cosa pubblica o imprese e istituzioni di grande impatto sociale è altrettanto connessa con l’opportunità di rivedere le regole di governo organizzativo (la governance) del settore culturale. Tale cambiamento è stato finora prevalentemente affrontato concentrandosi quasi solo sulle persone e poco sui processi aperti e trasparenti di gestione del cambiamento. Al cambio di orientamento si piazzano, con troppa fretta, alcuni esponenti dello stesso, a volte esperti, più spesso autori di qualche testo divulgativo o giornalistico o con passione per il tema o ancora con plateale appartenenza partitica presa, non tanto per passione, ma per desiderio di accelerare le troppo lente carriere. Ho fatto gli esempi da evitare e tra i tanti invece metodologicamente virtuosi ne citerò qui uno solo: l’istituzione per legge nel 2004 del Giorno del ricordo. La legge annunciava come favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all›estero. La stessa legge ha riconosciuto il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata con sede a Trieste e l’Archivio museo storico di Fiume con sede a Roma, prevedendone il finanziamento assieme ad altri enti di ricerca in Italia e Croazia.
La strada più fertile e corretta da seguire è, quindi, la seguente: se una nuova guida politica evidenzia, del tutto legittimamente, la carenza di attenzione a vicende storiche, personaggi, orientamenti culturali (recentemente lo si è, ad esempio, pensato, da più parti, per la cosiddetta cultura di destra) è bene attivare i consigli superiori, le consulte, lo stesso Parlamento e i consigli regionali rendendo esplicite le argomentazioni, ponendo obiettivi alle dirigenze e alle istituzioni (che al di là di ogni personale o privata convinzione dovranno implementarli, con le garanzie del confronto aperto e plurale, vero patrimonio culturale da tutelare sempre), allocando risorse, promuovendo con atti espliciti nuovi ambiti di studio, divulgazione o celebrazione, avviando un processo di consultazione che coinvolga tutti gli stakeholder.
Il maggiore pluralismo degli orientamenti, nel rispetto della libertà di pensiero, della scienza, dell’insegnamento e dell’arte è interesse di tutti e saper governare i cambiamenti, vecchi e nuovi, è oggigiorno una nuova, urgente sfida politica, culturale e professionale.

Antonio Lampis è dirigente pubblico nel settore culturale dal 1997. Dal 2017 al 2020 è stato direttore generale dei musei del Ministero della Cultura. Dal 1997 al 2017 dirige la Ripartizione cultura italiana della Provincia autonoma di Bolzano, incarico che ricopre nuovamente dal 1° settembre 2020.